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[Il ritratto] Pantani 15 anni dopo, il mistero della morte e una nostalgia indelebile nel cuore della gente

Tutti gli appassionati di ciclismo lo hanno amato per la sua debolezza, il fisico minuto, le orecchie a sventola, quelle rovinose cadute che sembravano sempre averlo distrutto e da quelli rinasceva tutte le volte più forte di prima

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
[Il ritratto] Pantani 15 anni dopo, il mistero della morte e una nostalgia indelebile nel cuore...

Quindici anni dopo, Marco Pantani è ancora una nostalgia profonda che non riusciamo a cancellare. E non è solo per il mistero lasciato dalla sua morte, nonostante due inchieste e il verdetto della Cassazione, per tutti i dubbi che mamma Tonina continua a gridare al vento, giurando che gliel’hanno ammazzato, quella mattina del 14 febbraio 2004, quando lo ritrovarono riverso per terra fra le sedie e il tavolino rovesciati nella stanza D5 del Residence Le Rose.

Quella camera non c’è più, e non c’è più nulla di quel 14 febbraio a Rimini. Ma tutti i luoghi che il tempo ha portato via, tutto il vuoto che ha lasciato, tutte le verità e tutte le bugie che sono state dette, non bastano a spiegare questo senso di ingiustizia che rievoca il ricordo di Pantani. Perché il Pirata non ha cominciato a morire quel giorno. E’ morto prima, di un’agonia senza fine, un calvario senza salite da rimontare e senza sogni da rincorrere a colpi di pedale, una lenta discesa verso gli abissi che lo aspettava in un altro luogo del destino, in cima a una montagna che lui aveva domato come tutte le montagne che scalava assieme a noi e alle nostre sconfitte, da quel giorno che nonno Sotero gli aveva regalato la prima bicicletta.

Marco Pantani ha cominciato a morire una mattina di pallido sole affacciato sui prati verdi di Madonna Campiglio, in un giro d’Italia che lui stava vincendo a mani basse, fermato dai medici perché la sua percentuale di ematocrito nel sangue era superiore al limite consentito, 52 anziché 50. Quel giorno, il 5 giugno del ‘99, lui disse: «Sono caduto tante volte e mi sono sempre rialzato. Ma questa volta non so se ci riesco. E’ troppo brutto quello che mi hanno fatto».

Alle 10 e 10 di quel mattino, Wim Jeremiasse, che allora era il numero 2 dell’Unione Ciclistica Internazionale, uscì in lacrime dal laboratorio dopo aver appreso che i test di Pantani erano positivi, e disse: «Oggi è morto il ciclismo». Nessuno gli chiese mai che cosa volesse dire, nemmeno in tutti i processi che ne seguirono. Anche Jeremiasse non c’è più, come la camera di Rimini, come tante altre persone e luoghi che appartengono a questa storia.

Certo è che quel 5 giugno del 1999 molte cose strane accaddero davvero, come poi rivelarono anche Renato Vallanzasca e altri due pentiti, asserendo che la camorra aveva convinto qualcuno a manomettere i risultati degli esami perché avevano scommesso cifre enormi sulla sconfitta di Pantani a quel giro d’Italia. Perché ad esempio il flacone di sangue di Pantani era stato contrassegnato con uno stranissimo zero anziché con un normale numero progressivo? Pantani corse ad Imola e rifece le analisi per due volte, e tutt’e due le volte la percentuale di ematocrito risultava sotto il limite consentito, a 48. Solo che quegli esami non avevano nessun valore giuridico.

Pantani perse il Giro e cominciò a rotolare lentamente verso i suoi abissi, prigioniero della sua fragilità e della sua sconfitta, cioé di tutte quelle cose che l’avevano fatto grande, un campione che riscattava le nostre paure e le nostre debolezze. Da allora non fu più lui. Quando ritornò a correre, dopo essersi apparentemente risollevato dalla crisi psicologica che lo aveva attanagliato, era diverso, meno magro, il volto quasi gonfio, gli occhi svuotati da quella passione che animava le sue salite.

Il segreto di Pantani, disse una volta Pino Roncucci, che era stato uno dei suoi primi direttori sportivi, «aveva due motori. Un motore fisico eccezionale e il motore testa altrettanto eccezionale. Tu pensa che Marco spingeva un 400 watt in soglia, una cosa pazzesca, che io non ho mai visto in nessun’altro atleta. Lui quando attaccava, poi riattaccava e riattaccava ancora. Sapeva stare molto in accidiosi. E a tutto questo ci aggiungeva una volontà unica appena la strada si impennava. Per questo era il più forte di tutti in salita e aveva un grande recupero».

La gente, però, tutti gli appassionati di ciclismo lo hanno amato per la sua debolezza, il fisico minuto, le orecchie a sventola, quelle rovinose cadute che sembravano sempre averlo distrutto e da quelli rinasceva tutte le volte più forte di prima. Sotto quella bandana, sopra quella bicicletta, in quelle ferite che gli segnavano il corpo, c’era un pezzo umanità, di tutti coloro che grazie a quel ragazzo pelato e mingherlino riuscivano a trovare l’illusione di affrontare le sconfitte della vita e qualche volta vincerle.

Era la contraddizione che emanava, la sua caratteristica principale, l’incredibile capacità di essere il contrario di quel che era: era nato nelle pianure davanti al mare di Cesenatico dove non si vedeva una montagna neanche col binocolo ed era diventato il più grande scalatore della storia; faceva il ciclista e non sapeva neanche stare tanto bene in bici visto che cadeva sempre; e poi, soprattutto, non riusciva mai a mettersi in pace con la fortuna, gli sfuggiva sempre, come capita a quelli come noi, che son venuti su un po’ vinti, mica a quelli che trionfano sugli altri.

C’era qualcosa di tragico nel Pirata, qualcosa di sisifeo. L’ingiustizia della vita che lo ha condannato, non ha potuto far niente contro la sua memoria. Pantani è ancora nelle piazze e nelle strade che gli vengono intitolate, nei monumenti che gli costruiscono sulle montagne, negli striscioni che accompagnano qualsiasi tappa del Giro e del Tour, nelle scritte lasciate sull’asfalto, nelle lacrime della gente, che lo consacrano come una presenza indelebile che resiste ancora all’oblio quindici anni dopo la sua morte.

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
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