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[Il ritratto] "Ti amavo, per questo vincevo": addio a Kobe il gigante per cui il basket non era solo sport

L'incidente aereo spegne la stella che aveva appena cominciato la sua nuova vita, lontano dal parquet. Era una "guardia" con un tiro micidiale

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
Kobe Bryant
Kobe Bryant

Kobe Bryant, The Black Mamba, è caduto giù dal cielo, ancora giovane, come capita agli eroi. Il destino l’ha fermato a 41 anni, quando aveva appena cominciato la sua nuova vita ormai lontano dal parquet, dal suo vero, grande amore, «così profondo, che ti ho dato tutto», come aveva scritto quattro anni fa nella struggente lettera d’addio dopo l’ultima partita contro l’Utah Jazz, 101-96 risultato finale: «Ti ho dato la mia mente, il mio corpo, il mio spirito e la mia anima». Per la sua generazione è stato il basket, lungo tutti i vent’anni di matrimonio con i Los Angeles Lakers, cinque titoli NBA, 48.618 minuti giocati e 39.283 punti. E’ stato davvero un eroe dello sport, una stella che splendeva non soltanto nel firmamento del basket. Qualcuno l’aveva definito il CR7 della pallacanestro, perché come il portoghese della Juventus è sempre stato maniacale nel lavoro di preparazione in palestra, attentissimo a qualsiasi dettaglio durante gli allenamenti, molto esigente con i compagni e soprattutto con se stesso.

Il luogo dello schianto dell'elicottero su cui viaggiava Bryant: tra le 9 vittime anche sua figlia Gianna

L'ombra dello stupro

Come Cristiano Ronaldo era stato accusato di stupro da una ragazza, per una vicenda del luglio 2003: era finito anche in carcere, liberato su cauzione. Nel processo del 27 agosto 2004, i legali della donna avevano ritiraro l’accusa penale, mandando però avanti una causa civile. «Chi mi conosce sa bene che non è possibile che io abbia fatto una cosa del genere», diceva lui. Anche quella buriana passò. Come rientrò la crisi con sua moglie, Vanessa Laine, che lui aveva sposato giovanissimo, e che aveva deciso di mollarlo e chiedere il divorzio. «Nei momenti brutti», diceva lui, «devi ricordarti che quello che fai è una bendizione. Che è un gioco, semplicemente un gioco. Devi recuperare l’istinto di quando eri bambino». E alla fine, a pesare sulla bilancia, sono state molte di più le cose belle.

Una "guardia" con un tiro micidiale

E nonostante tutto, Black Mamba è stato un uomo felice che ha vissuto con intensità la gloriosa parabola sportiva che l’ha portato nel Pantheon della Pallacanestro, il migliore cestista in assoluto prima dell’avvento del nuovo astro, James LeBron. Da guardia tiratrice ha messo in bacheca cinque titoli NBA e due medaglie d’oro olmpiche con la Nazionale, Pechino 2008 e Londra 2012. Suo padre, Joe Bryant, è un ex cestista e sua madre, Pamela Cox, è sorella di un altro ex giocatore di pallacanestro, Chubby Cox. Lo chiamarono Kobe come la pregiata qualità di carne bovina che i suoi genitori mangiarono in un ristorante qualche giorno prima della sua nascita. Al seguito di suo padre, che si era trasferito come giocatore a Rieti e Reggio Calabria, lui è cresciuto in Italia dall’età di sei anni fino ai 13, restando molto legato al nostro Paese, tifoso del Milan e grande amico di Ettore Messina.

"Mi ero innamorato di te"

Quando appese le scarpette al chiodo, scrisse una lettera toccante per annunciare l’addio: «Caro basket, dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzini di mio padre e a lanciare immaginari tiri della vittoria nel Great Western Forum, ho saputo che una cosa era reale. Mi ero innamorato di te, un amore così profondo che ti ho dato tutto, dalla mia mente al mio corpo, dal mio spirito alla mia anima. Da bambino di sei anni profondamente innamorato di te non ho mai visto la fine del tunnel. Vedevo solo me stesso correre fuori da uno. E quindi ho corso. Ho corso su e giù  per ogni parquet dietro a ogni palla persa per te. Hai chiesto il mio impegno e ti ho dato il mio cuore, perché c’era tanto altro dentro. Ho giocato nonostante il sudore e il dolore non per vincere una sfida, ma perché tu mi avevi chiamato. Ho fatto tutto per te perché è quello che fai quando qualcuno ti fa sentire vivo, come tu mi hai fatto sentire... Il mio cuore può sopportare la battaglia, la mia mente può gestire la fatica, ma il mio corpo sa che è ora di dire addio. Ti amerò per sempre. Kobe». Quella lettera diventò anche un cortometraggio che il 4 marzo 2018 vinse l’Oscar nella sua categoria. E questo dà l’idea della grandezza di Kobe. Non era solo il più forte. Era uno che aveva capito più di altri il senso di quello che faceva. Per questo non lo dimenticheremo più: «Io non gioco per vincere. Io vinco perché mi diverto».

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
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