L’Italia non ha soltanto battuto il Liechtenstein, ha pure giocato bene. Ma ora non montiamoci troppo la testa
I nostri rivali in campo non avevano neppure un gran campione di portiere, e hanno dovuto anche giocare tutto il secondo tempo in dieci
Alla fine per un gol l’Italia di Mancini ha pure fatto meglio di quella di Ventura. Sei a zero contro il Liechtenstein nella notte delle promesse, quasi come il 5 a zero in quella delle premesse, che anticipò il precipizio, dalla Spagna alla Svezia, con tanti saluti al Mondiale e una cicatrice che è ancora presto per ricucire. Ma i numeri sono come la realtà. Dicono quello che succede. E nascondono quello che devi capire. E la verità è che c’è un abisso tra quella squadra, giugno 2017 e Ventura che diceva «ci siamo ritrovati», e quella di oggi, marzo 2019 e la sensazione che oltre al risultato ci siano anche dei talenti e un’idea di gioco. Dal conservatorismo di Tavecchio & C. alla rivoluzione di Mancini
Non illudiamoci troppo, però
E’ cambiata la parte tecnica, e sono cambiati gli uomini che scendono in campo. Le novità però si fermano lì. La dirigenza s’è data una gattopardesca verniciata e basta così. Per il resto, vecchi e giovani insieme, godiamoci questa Nazionale. Perché fra le altre cose è cambiato anche il clima intorno agli azzurri, sette milioni e mezzo di telespettatori per la partita con la Finlandia, mica la Germania o il Brasile, e stadi sempre pieni, di pubblico e di entusiasmo. A dimostrazione che se vinci giocando bene, puoi piacere di più. E tra l’Italia che batte cinque a zero il Lichtenstein e quella di ieri non c’è solo quel gol di differenza, Pavoletti dopo un batti e ribatti, partito pure in offside. C’è qualcosa di molto più importante. Il gioco.
Per ora è meglio fermarsi qui
E’ vero che non bisogna montarsi troppo la testa per una goleada contro il Liechtenstein, che non aveva neppure un gran campione di portiere e che ha dovuto anche giocare tutto il secondo tempo in dieci. Ma francamente a noi non interessa questo. Di questa squadra, a noi piace la mentalità più del risultato e di qualsiasi risultato, piacciono il gioco, lo spirito, la voglia di offendere e non di difendere, il coraggio delle scelte e la spensieratezza dei giovani. Piace la sensazione che dà. Che è quella del futuro. E non di un passato da proteggere, con la testa sempre rivolta indietro. C’è un allenatore, i giovani stanno diventando grandi e fra qualche anno magari potremo ricominciare a pensare guardando di nuovo in alto. Ci vorrà tempo e ci vorrà pazienza, perché arriveranno le delusioni e arriveranno anche le batoste, che sono i prezzi da pagare quando si cresce. Il tempo e la pazienza sono le due cose che rischiano di mancare ai critici, molto spesso più tifosi che giornalisti, una malattia del nostro sport. Lo sappiamo bene. Dopo l’idillio, arriveranno anche i giorni delle polemiche. Dalle nostre bande, è persino un po’ scontato. Però qualcosa si è mosso da qualche mese e anche quelli che storcono il naso (nostalgia di Ventura? di Tavecchio? Boh) sono costretti ad ammetterlo.
La nuova Nazionale ha ricevuto la benedizione di Sacchi, che ormai è come un missionario che predica nel deserto, chiedendo al calcio italiano di trovare il coraggio che rinnega. E non gli dev’essere sembrato vero di averlo scoperto proprio in Mancini, che quando allenava l’Inter non sembrava davvero questo paladino dello spettacolo e del bel gioco. Certo, sempre meglio di Ventura che per incomprensibili misteri gaudiosi qualche avventato cronista sportivo era riuscito a dipingere come un tecnico moderno e dagli schemi spumeggianti, forse perché abbagliato da un 4-4-2, quando allenava il Pisa, spacciato ai creduloni che non avevano mai visto una sua partita, per un 4-2-4. Lasciamo perdere i numeri che fanno solo confusione. E godiamoci tutti Mancini, anche quelli, come noi, che non ci avrebbero mai creduto. D’altro canto, l’entusiasmo che suscita questa nazionale è palpabile. Non lo raccontano solo i numeri, perché capita abbastanza spesso ogni volta che si ricomincia da capo. E’ il fascino della novità. Però, la festa che accompagna queste partite dovrebbe farci meditare. Perché è un entusiasmo contagioso che arriva fino al campo.
Tutti quelli che entrano fanno bene
Spinazzola è stato il migliore in campo, il piccoletto Sensi ha segnato pure di testa, inaugurando la serie dei gol, e Pavoletti ha chiuso il cerchio dopo pochi minuti che era stato schierato. Non sbaglia mai nessuno. Poi ci sono il vecchio e il bambino. Quagliarella è ora come ora l’unico centravanti del nostro campionato che si adatta meglio al gioco di Mancini, perché oltre a far gol, come ha detto lo stesso tecnico, «sa giocare al calcio, e questo è importante». E Kean non smette di stupire. Ha segnato di nuovo, ha preso un palo, e ha sfiorato altri gol. Il futuro è di tutti, quando le cose girano. Vecchi e bambini.