[Il commento] Dal romanticismo della radiolina, a quello business e globale: così il calcio rischia di "mangiare" se stesso
I guadagni di gran lunga maggiori sarebbero sarebbero riversati sul campionato europeo, togliendo linfa e soldi ai tornei nazionali, con il rischio concreto di affossare economicamente molte delle formazioni in lotta
Se è vero quello che ha scritto il Wall Street Journal, il calcio si sta avviando verso una profonda trasformazione, che prevede un campionato europeo per club da disputare nei giorni del week end, con i tornei nazionali relegati a metà settimana. Il sabato ci potremo sedere a guardare Inter-Real Madrid e la domenica Juventus-Manchester, mentre il mercoledì si sfiderebbero Cagliari e Chievo, ribaltando completamente le gerarchie dell’audience.
Se apparentemente, in alcuni Paesi - Italia, Germania, Francia e pure la Spagna - questo cambiamento potrebbe apportare anche alcuni vantaggi, perché senza più l’interesse e la volontà delle squadre più blasonate che stanno noiosamente dominando le varie classifiche, le competizioni diventerebbero più avvicenti, dall’altra parte l’idea nascerebbe con una grossa controindicazione.
E’ evidente che i guadagni di gran lunga maggiori sarebbero riversati sul campionato europeo, togliendo linfa e soldi ai tornei nazionali, con il rischio concreto di affossare economicamente molte delle formazioni in lotta. Quanto pagherebbero a questo punto le pay tv per trasmettere le partite del mercoledì e del martedì, senza le squadre più titolate? E’ vero che in Italia con la Juventus, in Francia con il Psg, in Germania con il Bayern e al limite il Borussia, e in Spagna con Real e Barcellona più qualche volta l’Atletico, i vari campionati sono praticamente senza storia, già chiusi e bollati a mezzo inverno, ma è altrettanto vero che il sistema si regge per ora proprio sui confronti di campanile e sulle immancabili sfide di Davide contro Golia, che verrebbero cancellate o ridimensionate dai calendari.
Nella sua profonda mutazione, il calcio potrebbe perdere definitivamente quasi tutto quel romanticismo nel quale molti di noi sono cresciuti. In parte, parecchio l’ha già perso. Oggi non vedi più nessuno in giro con la radiolina incollata alle orecchie accompagnato a passeggio da moglie figli vocianti per seguire le partite di «Tutto il calcio minuto per minuto», una trasmissione che fa parte della nostra storia, come le prime televisioni in bianco e nero appoggiate sul mobile buono del salotto, come Italia Germania 4 a 3 e la rete di Rivera, la pubblicità di Carosello e il volto di Virna Lisi che «con quella bocca» poteva dire quello che voleva, la Brillantina Linetti e il Cynar contro la frenesia della vita.
Tutto il Calcio minuto per minuto fu ideata da Guglielmo Moretti, Roberto Bortoluzzi e Sergio Zavoli e nacque il 10 gennaio del 1960, presentata, diceva l’unica voce femminile, da un famoso liquore di Trieste. Il calcio era un mondo di uomini. Agli inizi trasmettevano solo i primi tempi e nella puntata che avviò quella storia della nostra vita erano collegati da Milano Nicolò Carosio per Milan Juventus, da Bologna Enrico Ameri per Bologna-Napoli, e da Alessandria Andrea Boscione per Alessandria-Padova.
Dagli studi, la voce cavernosa di Bortoluzzi, che ci rimase fino a quando non andò in pensione nel 1987, aggiornava i risultati delle altre partite. Nel periodo in cui raggiunse i suoi picchi di ascolti, toccando addirittura i 25 milioni di affezionati, il radiocronista principale era diventato Enrico Ameri, che gareggiava con Sandro Ciotti, piazzato sul secondo campo. Ameri affastellava le parole, divorandole come caramelle, in un calcio che lui rendeva più veloce della sua realtà. Ciotti, invece, musicista fallito, e mediano di combattimento nelle giovanili della Lazio, aveva una voce roca che modulava con sapienza sui racconti delle partite o interrompendo all’improvviso gli altri colleghi: «Clamoroso al Cibali!», urlò una volta per annunciare la vittoria del Catania contro la Grande Inter di Helenio Herrera, e quella frase restò così celebre da diventare persino un modo di dire.
In quegli anni in cui la televisione cercava di unificare l’Italia, scegliendo addirittura per le pubblicità più importanti doppiatori con accenti lombardi ed emiliani, così da dare più appeal ai prodotti, e anche, soprattutto, più valore alla nostra lingua, rappresentata dalle regioni economicamente più avanzate, in realtà nessuno uniformò l’Italia come il calcio. Erano gli anni del centrosinistra e del boom e in tutto il tempo che arrivò dopo, il pallone conservò una funzione catalitica, che accelerava la nostra corsa al benessere e al consumismo.
In quel Paese che galleggiava sulla propria inaspettata ricchezza, e sulle paure terribili degli anni di piombo, il calcio era un mondo di speranze e di emozioni per tutti, dove vincevano ancora gli uomini e i loro valori riconosciuti. Potevano conquistare gli scudetti il Bologna, la Fiorentina, il Cagliari, la Lazio, il Torino. Scopigno era il filosofo, Nereo Rocco el paròn, che quando un suo giocatore giocava male gli diceva: «Testa de gran casso ti e anca quel che t’ha messo in squadra». La televisione allora non era ancora padrona del calcio.
C’era, in quegli anni, solo il secondo tempo della partita più importante trasmesso sulla seconda rete alle sette di sera. Nasceva Novantesimo minuto. E c’era la Domenica sportiva di Tito Stagno. Quando andava lì, Nereo Rocco sembrava un’altra persona, quasi a disagio davanti alle telecamere, come un contadino buttato nella mischia, lontano dai suoi campi. «Go fato ‘l paiazzo per tanti ani in spogliatoio perché me divertivo. Nol poso farlo in television perché se diverta el signor Tito Stagno», spiegava lui.
Poi c’era Niels Liedholm, il Barone, che portò lo scudetto alla Roma, nel 1983, uomo di grande ironia e di sconfinata saggezza. «Gli schemi sono belli in allenamento: senza avversari riescono tutti», rispondeva tranquillo a quelli che gli contestavano una partita sbagliata. Appena è cambiato il calcio, sono spariti anche questi personaggi. Nessuno ci può più scherzare sopra. «L’allenatore di calcio è il più bel mestiere del mondo», diceva Liedholm: «Peccato che ci siano le partite». Adesso, nel dominio delle tv e dei soldi, in quella violenza diffusa che pervade il pallone, rendono molto di più i mister aggressivi come Mourinho e Conte che non hanno paura di spezzare gli avversari a maleparole.
Dominano poche squadre e la legge del più forte è quasi sempre quella del più ricco. Non è un caso che questa rivoluzione l’abbia cominciata proprio un uomo di televisione come Silvio Berlusconi, trasformando i raduni e le partite nella Danza delle Valchirie, in una parata di spettacolo che deve esibire le sue stelle come una sfilata luminosa ed accecante, non come un gioco che consacra lo sport e i suoi valori. Da lì, da quel Milan costruito per le tv, al campionato europeo aperto solo ai Grandi Club più ricchi e più potenti, il passaggio è inevitabile.
Il pallone diventerà un mondo esclusivo come la Formula 1, con la sua pioggia di miliardi e di starlette, riservato a coloro che possono permetterselo. Chi lo gioca per sport verrà escluso. L’ultimo sopravvissuto di quel tempo antico e romantico, Carlo Mazzone, lo potrà guardare come un amore finito. Mancherà l’odore dell’erba, la felicità del gioco, la sapienza ruspante del mondo dei vinti. Il mondo di Mazzone e di quelli come lui. Una volta chiamò il suo terzino, Amedeo Carboni, che andava sempre all’attacco lasciando sguarnita la fascia. «Vié un po’ qua». Sì, mister? «Tu hai studiato?». Sì, mister. «Sei un terzino?». Beh, sì. «Da quanti anni giochi titolare?». Dieci, mister. «E quanti gol hai segnato in dieci anni?». Sette. «Allora, ‘ndo cazzo vai?».