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Astori: non solo un ottimo calciatore ma un buono in un'era in cui "buonista" è un insulto

Davide non faceva guerre contro nessuno e l'hanno amato di un sentimento profondo, che resiste nel tempo. Dev'essere perché, come ha detto il suo ex compagno di squadra, Milan Badelj, Davide aveva «il dono della lingua universale, quella del cuore, dono di pochi eletti.

Astori: non solo un ottimo calciatore ma un buono in un'era in cui 'buonista' è un insulto

Davide Astori aveva di speciale che era buono. Non era soltanto un ottimo difensore. E fa un certo effetto che proprio nell’era in cui il buonismo è diventata una pericolosa categoria, da sconfiggere e da odiare, uno come lui sia ricordato ancora così un anno dopo, consegnando alle immagini la sua grandezza, con la gente che applaude commossa in tutti gli stadi d’Italia, e l’atalantino Ilicic butti via il pallone in quel fatidico minuto 13, prima dell’omaggio del silenzio in sua memoria, e scoppi in lacrime come un bambino.

Fa un certo effetto che il capitano della Fiorentina abbia radunato al suo funerale a Santa Croce persino due bandiere della Juventus, l’acerrima nemica storica dei viola, come Chiellini e Buffon, che non riuscivano a trattenere le lacrime, mentre i tifosi di Firenze li applaudivano, come capita solo in quei film di buoni sentimenti, che credevamo così lontani dalla realtà. Non basta la livella della morte a spiegare tutto questo. Sono le azioni della vita che lo spiegano, quello che hai fatto e quello che eri. Davide ha seminato la sua forza, perché lui, ha detto la sua compagna, Francesco Fioretti, «era un uomo forte».

Tutto quello che gli è stato dedicato in quest’anno, viene fatto alla fine in nome di questa sua grandezza, così desueta e particolare. L’Usd San Pallegrino, in provincia di Bergamo, dove ha cominciato a far carriera tirando i primi calci a un pallone, gli ha intitolato la scuola calcio e il direttore sportivo Stefano Tassis ha detto che questa iniziativa «vuole trasmettere a tutte le nostre squadre, ma soprattutto ai bambini che iniziano a giocare, i valori e l’impegno che Davide ha dimostrato dentro e fuori dal campo. La nostra scuola non deve dare soltanto delle regole, ma anche insegnare il rispetto, l’amicizia, la generosità, l’altruismo».

E il sindaco di San Pellegrino Terme, Vittorio Melesi, ha dichiarato che «i suoi valori sono un patrimonio che la nostra comunità deve continuare a custodire». Lui era così sin da piccolo. Le sue tre maestre della classe B, Maddalena Camozzi, Anna Maria Milesi e Ivana Ravellini raccontano che Davide fin dagli inizi «era proprio come l’hanno descritto giornali e tv. Una persona buona. Era dolcissimo, riservato, molto educato, studioso. Eccelleva in matematica, ma andava bene in tutte le materie». E quando lo dicevano a papà Renato e mamma Anna, nei colloqui con gli insegnanti, loro sembravano preoccuparsi soprattutto di altro: la cosa importante, dicevano, «è che sia bravo ed educato». Ancora adesso, papà e mamma sono così fieri di quello che ha lasciato agli altri il loro figlio da scriverlo in una lettera, a un anno dalla sua morte in quella stanza d’albergo a Udine, quando il suo cuore lo uccise all’improvviso: «Tanti ci hanno detto che il nostro Davide era speciale, dotato di una gentilezza rara, spesso disarmante. Ed era vero».

Pescato dal Milan e mandato in prestito in C1 alla Cremonese e poi venduto al Cagliari, aveva sempre finito per giocare titolare dovunque fosse emigrato, con la sua maglia numero 13. Arrivato in Nazionale, riuscì a segnare quasi subito, primo giocatore dei rossoblu sardi ad andare in rete quarant’anni dopo l’ultimo, che era stato Gigi Riva, un monumento del calcio isolano. Anche in questo era diventato speciale. Era stato un anno alla Roma, 29 partite da titolare, e poi alla Fiorentina, subito in campo e già capitano un anno dopo. L’ha fermato il tempo, l’ha ucciso il cuore.

E' morto giovane, come gli eroi. Ma gli hanno fatto una tomba semplice, nel piccolo cimitero di San Pellegrino Terme, disegnata dal fratello Bruno, che è architetto, subito dopo l’ingresso, a sinistra. Una foto, nome e cognome, l’anno di nascita (1987) e quello di morte (2018). Accanto alla sua immagine, la lastra si apre mostrando dei garofani. Ci sono due sciarpe viola, qualche fiore, e appiccicato a un vaso il numero 13, quello del suo numero di maglia, e dello stesso minuto in cui domenica il campionato si è fermato. C’è una processione di gente semplice, bambini, tifosi, padri di famiglia, che lasciano lettere e dediche. Nel silenzio della morte sono tutti più buoni, e scrivono che era «un gentiluono del pallone», che «da lassù ci sorride», che è stato «il miglior capitano».

Davide leggeva molto, ha raccontato Francesca, la sua compagna, «perché gli piaceva scoprire quello che non sapeva». Adesso avrà tante cose da leggere, che parlano di lui. Anche Gigi Buffon ha voluto lasciargli il suo epitaffio: «Era una persona perbene, una grande persona perbene. L’espressione di un mondo antico, superato, nel quale i valori come l’altruismo, l’eleganza l’educazione, il rispetto verso il prossimo, la facevano da padroni. Sei stata una delle migliori figure sportive nelle quali mi sono imbattuto».

Alla fine, in questo mondo dei cattivi, nell’era della caccia ai buonisti, è come se a Davide gli avessero riconosciuto l’onore delle armi. Nel posto dove si trova chissà se le fanno ancora queste distinzioni. «Dovrete sopportarmi», aveva detto ai tifosi fiorentini. Lui non faceva guerre contro nessuno. Eppure l’hanno amato di un sentimento profondo, che resiste nel tempo. Dev’essere perché, come ha detto il suo ex compagno di squadra, Milan Badelj, Davide aveva «il dono della lingua universale, quella del cuore, dono di pochi eletti. Sei stato il calcio puro, quello dei bambini». Dev’essere andato lì, Astori. Un posto dove si gioca solo per divertirsi.

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno, editorialista   
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