Il destino di Di Francesco era segnato, ora spazio all'aggiustatore Ranieri
Cambio sulla panchina della Roma dopo la sconfitta nel derby contro la Lazio e poi l’eliminazione in Champions, anche se decisa da uno scandaloso arbitraggio
Eusebio Di Francesco non è un allenatore qualunque. Lui è l’allenatore del 10 aprile 2018, con il gol di Manolas al trentesimo del secondo tempo e la storia che si ribalta, è quello della Roma che ha rovesciato il Barcellona dopo aver perso 4 a 1 al Camp Nou, un’impresa come quella dell’Ajax contro il Real Madrid, una partita che supera la cronaca, più potente di un sogno, più grande del mare. Eusebio è quello di una notte che capita una sola volta nella vita, quello che gli scrissero «se nun so morto oggi nun muoio più», perché «è inutile cercare di spiegare. Non capireste». E un po’ è così. E’ uno che ha sempre provato a fare le cose impossibili, condannato forse anche dal suo nome che papà Federico, calciatore del Sassuolo, gli aveva imposto in omaggio al campione del Benfica che combatteva contro i giganti del Real Madrid senza riuscire quasi mai a vincere, perché il destino prende strane curve e a volte comincia dall’inizio.
Adesso che Di Francesco è stato esonerato dalla Roma, al suo posto hanno preso l’esatto opposto, Claudio Ranieri, l’aggiustatore, il più «formidabile maestro di calcio normale», come l’ha perfettamente definito Mario Sconcerti. Anche Ranieri ha fatto il suo miracolo impossibile, lo storico trionfo del Leicester in Premier League. Ma lui ci è arrivato per tutta un’altra strada, predicando umiltà e testa bassa. Niente sogni, Ranieri non è tipo da sogni, neanche quando li fa e li fa fare. Eusebio è diverso. Lui i sogni li coltiva. Quella notte della rimonta con il Barcellona è andata proprio cone l’aveva sognata.
James Pallotta questa volta non poteva fare altrimenti. Un campionato nato storto che non si raddrizza, la brutale sconfitta nel derby contro la Lazio, e poi l’eliminazione in Champions, anche se decisa da uno scandaloso arbitraggio. Alla fine il destino di Eusebio era segnato. E l’aggiustatore è quello che ci vuole, il tipo che rimette a posto i cocci, che non fa voli pindarici, e bada al sodo infischiandosene dello spettacolo: ma adesso è di questo che ha bisogno la Roma. «Sono il signor Wolf. Risolvo problemi. Sono qui per dirvi che cosa fare. Sono qui per dare una mano». La Roma mette da parte tutti i sogni. E il primo dei sognatori.
Perché Eusebio è uno strano tipo. Quando giocava era tutto corsa e sudore. Poi dalla panchina è sembrato un altro. Però, a leggere bene, il suo curriculum, non è mai stato uno qualunque. Eusebio era un turbomediano da calciatore. Anima e polmoni. Veniva dalla gavetta, ma quando Maldini lo chiamò per la prima volta in nazionale, a 28 anni, disse di no, perché aveva una partita più importante, lo spareggio per la salvezza Piacenza Cagliari. Fu il migliore in campo e vinse il suo Piacenza 3 a 1. Ha vinto lo scudetto della Roma, 2001, la Roma di Totti e Batistuta, la Roma di Capello e anche un po’ sua, che era il pupillo di Zeman. Da allenatore ha continuato a fare cose strane: prese il Pescara messo malissimo in C1 e lo portò subito in serie B. Poi segnò l’era del Sassuolo: lo condusse nella massima serie per la prima volta nella sua storia, e due anni dopo lo fece giocare pure in Uefa. Ma anche lì, nel primo anno di serie A, dopo appena tre mesi l’avevano già fatto fuori: chiamarono Alberto Malesani che fece 5 sconfitte su 5 partite e allora bussarono di nuovo alla sua porta.
Ha fatto giocare il Sassuolo sempre all’attacco. Se doveva affrontare l’Inter di Mazzarri, grande maestro di catenacci e muraglioni davanti all’area, lui mandava i suoi all’assalto e poi perdeva sette a zero. Ma non ha mai cambiato idea. Come fanno tutti i sognatori. Sul campo era un pupillo di Zeman. E una volta arrivato in panchina ha sempre ripetuto di ispirarsi a lui: «Il suo modo di vedere il calcio mi ha molto aiutato. Con Zeman, nonostante le grandi fatiche del ritiro, mi sono divertito soprattutto per la mentalità offensiva. Poi ho cercato di integrare ai suoi insegnamenti anche l’importanza della fase difensiva. Alla resa dei conti resta comunque l’allenatore che mi ha ispirato più di tutti». Zeman e Di Francesco sono due allenatori che inseguono i sogni. Ranieri ha afferrato il più grande senza mai inseguirlo una volta. Non sono solo due filosofie opposte. Ranieri dice che nel calcio non c’è niente da inventare, che bisogna «studiare come giocano gli altri per cercare di batterli». Di Francesco va all’assalto. Poi magari finisce come con l’Inter, o l’altro venerdì con la Lazio. Quelli che inseguono i sogni hanno sempre un prezzo da pagare. Ma lui non molla: «Le cose buone accadono a chi sa aspettare», ha detto. «Quelle grandiose a chi si spacca il culo per farle accadere e non molla mai».
Eusebio non è un allenatore normale. Il suo più grande cruccio è quello di aver fermato gli studi alla terza media. Legge libri e qualche volta li regala anche ai suoi calciatori. Ha letto Mindset di Carol Dweck. Sottotitolo: «Cambiare forma mentis per arrivare al successo». Scrive sulla lavagna le frasi di Nelson Mandela per motivare i giocatori. Le ha imparate tutte a memoria: «Lo sport ha il potere di cambiare il mondo», diceva il grande leader sudafricano. «Ha il potere di ispirare. Unisce le persone in un modo che poche altre cose fanno. Parla ai giovani in una lingua che comprendono. Lo sport può portare speranza dove prima c’era disperazione». Solo uno così, uno come Eusebio poteva regalare la notte del 10 aprile 2018 ai tifosi della Roma (e non solo a loro). Adesso forse non lo vedranno più in giro all’Eur a passeggio con la famiglia o a mangiare da Checco dello Scapicollo, in via dei Genieri. Non lo vedranno più da quelle parti, ma lui resterà lo stesso. Continuerà a sognare. «Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso». Lo diceva Nelson Mandela.