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Ma è un giusto processo quello che condanna la Juve?

Qualunque decisione prenderà il Collegio di Garanzia, a favore o a sfavore, resterà il dubbio che possa essersi trattato veramente di una sentenza super partes

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
Ma è un giusto processo quello che condanna la Juve?

Il 19 aprile il Collegio di Garanzia del Coni si pronuncerà sulla sentenza della Giustizia sportiva che ha tolto 15 punti in classifica alla Juventus. E’ solo il secondo atto di un procedimento che si annuncia ancora lungo e ricco di molti altri appuntamenti. Ma quello a cui abbiamo già assistito in questo breve lasso di tempo è talmente incredibile da lasciare basiti chiunque abbia a cuore il senso di un giusto processo. Al punto che qualunque decisione prenderà il Collegio di Garanzia, a favore o a sfavore, resterà per assurdo il dubbio che possa essersi trattato veramente di una sentenza super partes. In questo clima di insostenibile canea, più da Curva Sud che da aula di tribunale, ne ha fatto le spese anche il magistrato Ciro Santoriello, uno dei pm dell’inchiesta Prisma, beccato, nel corso di un evento pubblico, a dire: «Sono tifosissimo del Napoli e odio la Juventus. Come tifoso è importante il Napoli, come pubblico ministero ovviamente sono antijuventino, contro i ladrocini in campo...».

Santoriello ingenuamente vittima del sistema

Ora, Ciro Santoriello è un magistrato di grande valore, - come sa bene chiunque abbia lavorato a Torino nel Palazzo di Giustizia, e come hanno tenuto subito a precisare persino i difensori della società bianconera -, rimasto ingenuamente vittima di un sistema che ha reso il calcio una religione, più fanatica che teologica, inconcepibilmente prigioniera dei suoi adepti, e trascinato dopo questo episodio in una gogna mediatica senza senso. La sua era una dichiarazione niente affatto seria, dal tono solo colloquiale e scherzoso. Non ci sarebbe nulla di male a essere antijuventini, e anche chi scrive, pur non essendo tifoso del Napoli, confessa di nutrire sentimenti simili a quelli di Santoriello e che non gli dispiacerebbe persino vedere la Juventus sbattersi una volta tanto per non retrocedere. Ma la Giustizia è un’altra cosa, è una cosa seria, e non puoi confonderla con il tifo. Ora nessuno è così utopista da chiedere il processo di stile americano, che è per definizione e diritto costituzionale un giusto processo, dove non vige la finzione dell’imparzialità ma la regola del confronto duro tra accusa e difesa e dove la difesa ha gli stessi poteri dell’accusa. Siamo un Paese diverso, e va bene. Poteva farla quella dichiarazione Santoriello? Ovvio che era meglio di no. Comunque ha subito rinunciato all’incarico. Molto più grave che alcuni membri del Collegio di Garanzia del Coni si siano cimentati nell’aggredire sui propri social la stessa società di calcio con epiteti da Curva ultrà, senza che nessuno, e ripeto nessuno, abbia anche soltanto pensato di chiedere le loro dimissioni. Semplicemente perché nel calcio si ritiene normale che la giustizia sportiva sia esercitata con i crismi del tifo.

Il giusto processo è impossibile

In queste condizioni il giusto processo è impossibile, soprattutto nell’ambito della Giustizia sportiva, soggetta per di più a un teorema pericoloso, secondo cui sei colpevole fino a prova contraria. Ma c’è un limite a tutto. E, come ha scritto in un bellissimo fondo il direttore del Foglio, Claudio Cerasa, dichiarato tifoso interista, «avere una giustizia sportiva trasformata in una costola del processo mediatico è uno spettacolo che purtroppo appare pietoso». A maggior ragione se la deriva dell’informazione sportiva trascina addirittura dei cronisti a buttarsi negli spogliatoi di San Siro dopo Milan Napoli per insultare l’arbitro. Che garanzia di correttezza possono dare questi comportamenti? Però è successo: la giustizia sportiva è andata a braccetto col processo mediatico. Ora, a sfogliare le 36 pagine di motivazioni della sentenza sulle plusvalenze, saltano subito agli occhi alcune lacune in maniera più che evidente. La prima cosa, che hanno rimarcato in molti, è che la Juventus viene condannata senza però che la giustizia sportiva abbia individuato una controparte con cui avrebbe commesso quel reato. E già questo non ha molto senso. Abbastanza grave è pure il fatto che la penalità sia stata inferta durante il campionato, così falsando per forza di cose, in un modo o nell’altro, e anche con la restituzione dei punti, lo svolgimento della stagione.

L'obbrobrio giuridico

Ma l’obbrobrio giuridico sta nel fatto che i giudici non spiegano come sia possibile condannare la Juventus per un reato che la stessa giustizia sportiva nelle motivazioni di una sentenza di un anno fa, in cui aveva prosciolto undici squadre, aveva definito più che aleatorio, perché «il valore di un calciatore è dato e nasce in un libero mercato peraltro caratterizzato dalla necessità della contemporanea concorde volontà delle due società del calciatore interessato». Cosa significa questo? Che se decidi che quello non è un reato non puoi imbastire un altro processo per quello stesso reato. Ancora peggio è condannarla poi sulla base di una nuova accusa, quella della slealtà sportiva, che non hai contestato nel momento di chiamarla a giudizio, non consentendo quindi all’imputato di difendersi.

Come emettere sentenze su queste basi?

Dove si possono costruire processi e emettere sentenze su queste basi? Non lo so. Forse solo in un regime. Ma quello del calcio è davvero un regime in cui la giustizia sportiva può fare tutto quello che vuole, anche occuparsi di cose che riguarderebbero soltanto la giustizia ordinaria? In molti casi, si pensi al razzismo e alla violenza negli stadi, sembrerebbe di no, pare più un’arma spuntata, quasi impotente, di fronte a certi comportamenti al limite della legge, e anche oltre. Questo processo sulle plusvalenze, così assurdo e kafkiano, potrebbe anche chiudersi a tarallucci e vino, abbiamo scherzato, tutto come prima, se non fosse che siamo solo all’inizio della vicenda, e che la seconda parte dell’inchiesta Prisma rischia di pesare come un macigno sulle spalle della società se ci fossero prove sul reato di false comunicazioni sociali per indebito occultamento degli stipendi. Ma con tutto quello che è successo fino adesso, con questo sistema mediatico e quello giudiziario che gli va dietro, in cui la fede calcistica si trova su un piedistallo più alto rispetto a quella per lo stato di diritto, fino a che punto ci possiamo ancora fidare? Come dice Claudio Cerasa, «avere una giustizia sportiva che si muove da grancassa del processo mediatico, che sceglie di sostituirsi al potere giudiziario e che sceglie di trasformare i sospetti in prove è il modo peggiore per poter dire che nei confronti della Juve giustizia è stata e verrà fatta».

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
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