[Il ritratto] Uomo più veloce del mondo ma calciatore fallito: il sogno di Bolt è finito
Dopo i provini con Manchester United e Borussia Dortmund e la fallimentare esperienza con i Central Coast il velocista lascia il calcio: "Diventerò un uomo d'affari, la mia vita sportiva si è chiusa"
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Un anno contato male, qualche spezzone di partita e persino due gol che chissà come è riuscito a fare. L’avventura nel pianeta calcio dell’uomo più veloce del mondo, Usain Bolt, è tutta qui. Non un grande successo, nonostante le due reti messe a segno abbastanza incredibilmente, perché quando l’abbiamo visto giocare con la maglia a strisce gialle e nere e il numero 95 sulla schiena degli australiani del Central Coast Mariners, subentrando nel secondo tempo, correva come un razzo, e ci macherebbe altro, ma non è riuscito neppure a mettere un pallone dentro su un passaggio rasoterra, solo davanti alla porta vuota, ciccandolo completamente.
Lui ha confessato candidamente che «è stato bello finché è durato. E’ stata una buona esperienza e mi sono davvero divertito a far parte di una squadra. Non posso dire di non averci creduto, ma alla fine mi sono reso conto che non era possibile. Ho imparato la lezione. Non so se non abbiamo gestito bene la situazione, anche se credo che abbiamo sbagliato alcune cose. Si vive e si impara, tutto serve nella vita. E’ tutto completamente diverso dall’atletica. Adesso sto facendo tante cose diverse, con lo sport ho chiuso e mi sto muovendo in altri tipi di attività. Penso che in futuro diventerò un uomo d’affari».
Usain si era già arreso a novembre, quando si era svincolato dalla squadra australiana, rifiutando anche l’offerta della formazione della Valletta, perché ritenuta non adeguata. Solo in questi giorni, però, ha annunciato il suo ritiro. Si è spezzato un sogno che aveva inseguito da tanto tempo, da quando nel 2010 aveva dichiarato di essere un grande amante del calcio, ospite del Manchester United - la società per cui ha sempre ammesso di fare il tifo - durante le sedute di allenamento e presente pure in tribuna a Londra per sostenere i red nella finale di Champions League del 2011. Quella sera disse ai giornalisti che dopo il suo ritiro gli sarebbe piaciuto giocare nel Manchester.
Invece, ha dovuto accontentarsi dei norvegesi dello Stromsgodset e degli australiani del Central Coast Mariners, nella League 1, oltre a un provino con il Borussia Dortmund che aveva richiamato grappoli di giornalisti pieni di aspettative disattese, subito dopo aver stupito tutti annunciando il suo ritiro dall’atletica, ancora molto giovane, a 31 anni appena. Niente campionato tedesco, nonostante l’interesse dei gialloneri di Lucien Favre fosse davvero molto forte, e niente Premier. Nel mitico Old Trafford di Manchester è sceso in campo solo per una amichevole con una selezione inglese preparata quasi esclusivamente per lui. Ma anche lì non è che ha fatto una gran figura. E con lo Stromsgodset ha disputato venti minuti in una partita contro la selezione under 19 norvegese. Diciamo che il pallone è un’altra cosa, non basta correre più veloce di tutti. Eppure lui era davvero convinto di riuscire a sfondare in qualche modo. Questa sicurezza gli veniva dal fatto che sin da quand’era bambino aveva sempre avuto successo in qualsiasi sport si fosse cimentato.
Nato a Sherwood Content, un villaggio di mille anime della Giamaica, aveva cominciato a cimentarsi in parecchie attività sportive che aveva ancora i calzoni corti. Poi aveva scelto il cricket, perché era quello che gli piaceva di più. Era parecchio bravo. Aveva un solo difetto: era troppo veloce. Tanto che fu il suo stesso allenatore a convincerlo a provare con l’atletica: «Ne ho conosciuti pochi come te, ti ci porto io». Andò sul campo, e lo fecero correre. «Ti faremo fare i duecento metri», gli dissero. Alla prima gara arrivò secondo, praticamente senza allenamento. Partecipò a vari tornei, campionati studenteschi e nazionali, replicando molto sovente lo stesso piazzamento. A partire dal 2004, però, a 18 anni, con un nuovo allenatore molto più severo che lo prese in disparte spiegandogli che se voleva arrivare il talento da solo non poteva bastare e che doveva allenarsi più seriamente senza altri grilli per la testa, Usain Bolt cominciò a consacrarsi come uno dei più forti velocisti di sempre. Per qualche anno alcuni infortuni bloccarono la sua crescita e l’esplosione defintiva, che avvenne a Pechino, nel 2008, con la replica ai Mondiali di Berlino l’anno dopo. Da lì in poi, ha collezionato titoli e record come nessuno mai. E’ l’unico atleta nella storia ad aver vinto l’oro dei 100 e dei 200 in tre edizioni consecutive dei Giochi Olimpici, 2008, 2012 e 2016, oltre a detenere ancora adesso i primati mondiali delle due velocità stabiliti a Berlino nel 2009 e quello della staffetta 4 per 100 fissato alle Olimpiadi di Londra sette anni fa.
Inseguito dalle donne anche dopo il suo fidanzamento con Kasi Bennet, osannato e ricercato da tutti, ha reagito quasi con una alzata di spalle, senza scomporsi troppo, ai veleni di Carl Lewis, l’unico che ha avanzato qualche dubbio sui suoi successi: «Mi chiedo come si possa correre un anno in 10’03 e l’anno successivo in 9’69». L’ex campione olimpico americano aggiunse poi, tanto per aumentare il carico, che tra gli atleti scesi sotto il 9’80, tre sono risultati positivi all’antidoping e uno aveva dovuto fermarsi un anno intero per un serio infortunio.
Resta il fatto che Usain non è mai stato trovato positivo in tutti i controlli effettuati, e che si è sempre schierato in prima fila nella lotta contro il doping. Lightning Bolt, il fulmine Bolt, o Bolt from the blue, un Fulmine a ciel sereno, come lo chiamavano gli americani, rispose con molta calma a Carl Lewis: «Le mie vittorie sono frutto di tanto allenamento. Chiunque voglia controllarlo è il benvenuto». Detto fatto. Alla seconda partita con la maglia dei Mariners in Australia, subito dopo aver segnato i primi gol nella sua nuova vita da calciatore, si è presentata una signora negli spogliatoi per fargli un controllo a sorpresa. «Ma fate sul serio?», ha protestato Bolt. «Come è possibile che io debba fare un test oggi? Non sono un calciatore professionista, devo ancora firmare un contratto». Lei ha detto che eseguiva semplicemente un ordine, perchè le avevano spiegato che lui era un atleta d’élite e che quindi doveva sottoporsi ai controlli. Non è che questa risposta abbia convinto troppo Bolt, tanto che subito dopo ha postato su Instagram una foto del test: «Guardate qui cosa mi fanno, anche se non sono un professionista». A ripensarci, così ha finito per arrabbiarsi pure con Carl Lewis, una reazione inusitata: «Vorrei dirgli qualciosa. Ho perso ogni rispetto per lui, tutto il rispetto. Il doping è una cosa seria e avanzare dubbi su un atleta che non è mai stato trovato positivo in tutta la sua carriera mi fa davvero rabbia».
In realtà, Usain s’è sempre distinto per la sua calma, come diceva anche quando vinceva le Olimopiadi: «Il segreto per arrivare a questi risultati è venire qui ed essere rilassati, tranquilli. Io sono così. Sono un uomo tranquillo». Così tranquillo che è per questo che non capiva Balotelli: «Mario è un grande calciatore, ma un po’ troppo aggressivo per i miei gusti. Mi è capitato di incontrarlo un paio di volte, e non mi è stato per la verità molto simpatico». Perché alla fine, sostiene Bolt, è meglio essere un uomo tranquillo per fare la strada più lunga. E pazienza se lungo la via non c’è più il calcio: «Io nello sport ho vinto tutto quello che potevo vincere correndo più veloce di tutti. Adesso comincio una seconda vita fuori dallo sport. Imparerò ad andare più piano per vincere ancora».