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[Il ritratto] Zero talenti e un grande disastro. L’impresa disperata del Mancini furioso che vuole la panchina dell’Italia

Se sarà lui il nuovo Commissario Tecnico degli azzurri, il suo compito sarà un altro: quello di ricostruire la Nazionale dal disastro dei fratelli De Rege, l’indimenticabile accoppiata Ventura-Tavecchio, di riportarla su dagli abissi, fuori dalle secche in cui l’hanno abbandonata Di fuoriclasse manco l’ombra e di bravi giocatori neppure tanti. Le squadre straniere quando prendono un italiano dopo un po’ lo mettono sempre fra le riserve: ci sarà un perché

Roberto Mancini
Roberto Mancini
di Pierangelo Sapegno, giornalista e scrittore

Da giocatore, il suo rapporto con la Nazionale non fu proprio dei migliori e per i mondiali del ‘94, Arrigo Sacchi gli preferì Gianfranco Zola: negli Usa Roberto Mancini non fu nemmeno convocato. A quelli prima, nel ‘90, c’era, ma manco scese in campo, perché al suo posto giocava Giannini, il Principe. Adesso che i Mondiali potrebbe farli da allenatore, l’Italia ha fatto in modo di non andare. Sembra quasi una maledizione. Ma se sarà lui il nuovo Commissario Tecnico degli azzurri, il suo compito sarà un altro: quello di ricostruire la Nazionale dal disastro dei fratelli De Rege, l’indimenticabile accoppiata Ventura-Tavecchio, di riportarla su dagli abissi, fuori dalle secche in cui l’hanno abbandonata. Compito improbo, a onor del vero. Perché il vero problema è che manca il materiale e che all’orizzonte non sembra arrivare niente di buono: di fuoriclasse manco l’ombra e di bravi giocatori neppure tanti. Le squadre straniere quando prendono un italiano dopo un po’ lo mettono sempre fra le riserve: ci sarà un perché. 

Quello che ama il talento

Massimo Moratti, uno che lo conosce bene, disse che gli piaceva come allenatore perchè finalmente «è uno che privilegia il talento». Che è proprio quello che adesso è impossibile da trovare nelle nostre file. D’altro canto, è anche vero il contrario (cosa che capita spesso con Moratti), perché lui col talento ha finito molte volte per bisticciare. Lo apprezzava in Mario Balotelli, un altro che come lui ha esordito a 17 anni, e lo volle portare con sé anche a Manchester, sponda City, quando diceva «Mario è un ragazzo a cui voglio bene. E’ un bravo ragazzo e anche un gran calciatore». Poi, una volta le telecamere lo inquadrarono con gli occhi fuori dalle orbite che lo mandava a quel paese, e un’altra, il 3 gennaio del 2013, un fotografo lo ritrasse mentre strattonava infuriato la pettorina del bravo ragazzo a Carrington, il centro sportivo del City. Con Jovetic lo stesso. «A me piacciono i giocatori di talento», disse quando lo presero all’Inter. Difatti. Dopo una partita con la Lazio, mi sembra, si affrontarono a muso duro negli spogliatoi, perché Mancini l’aveva sostituito nel secondo tempo, separati da Guarin che cercava di calmare il serbo: «Cosa fai? Non mancare di rispetto al tuo allenatore!».

La rissa sfiorata con l'Apache

Senza parlare di Tevez: altro giocatore - questo sì - di indubbio talento, con il quale i rapporti erano talmente ai ferri corti che lui si rifiutò addirittura di entrare in campo durante una partita di Champions contro il Bayern, disobbedendo davanti a tutti al suo allenatore. «Siamo quasi venuti alle mani», confessò l’Apache ai giornalisti. Una leggenda metropolitana racconta persino che dopo le dimissioni di Conte dalla Juve, siccome in lizza c’erano Mancini e Allegri, Tevez corse in sede ad avvisare tutti: «Se viene Mancini, io vado via». Tranquillo, gli dissero. Per fortuna della Juve venne Allegri. In ogni caso tutti questi problemi con la Nazionale oggi non si pongono, a meno che Pellé o Zaza, o qualcun’altro di questi fenomeni del giro azzurro, che ne so, Romagnoli o Gagliardini, non si convinca di avere un grande talento oltre al conto in banca. C’è il rischio Balotelli: nel deserto di gente e considerando che la vecchia guardia juventina che non lo sopportava sta andando tutta in pensione, potrebbe tornare. Ma Mancini ha già pagato lo scotto.

Come un bambino con le figurine Panini

Per il resto, è un allenatore di esperienza internazionale, molto più fortunato sulla panchina che quand’era in campo, visto che ha inaugurato la serie di vittorie dell’Inter dopo Calciopoli grazie al siluramento della Juventus, e a Manchester vinse il titolo all’ultimo secondo con una insperata rimonta. Quando è tornato sulla panchina dell’Inter, in condizioni non più di favore, sembrava un bambino svogliato che giocava con le figurine Panini, cercando di prenderne più che poteva senza mai trovare quelle che voleva. Certo, rispetto a Ventura Tavecchio non c’è gara, qui siamo anni luce sopra. Ma anche Di Biagio era meglio dei fratelli De Rege. Mancini, da allenatore, continua a vivere specchiandosi nella sua carriera da enfant prodige e talento adorato. Il presidente della Samp Mantovani diceva: «Se non gioca Mancini, non vado allo stadio. Non mi diverto». Ma prima di lui se n’erano innamorati tutti. A 13 anni, quando Marino Perani, il responsabile delle giovanili del Bologna, lo chiamò per fare un provino, lo fece firmare subito dopo aver solo visto come toccava il pallone. Giocava sempre con i più vecchi, nella Primavera a 15 anni, e in serie A a 17, come Gianni Rivera, un altro battezzato dal destino. Nell’estate dell’82 il Bologna lo vende per 4 miliardi di lire alla Samp, una cifra astronomica per quei tempi. A Genova fa coppia con Vialli, così come nell’Under 21. Vincono uno storico scudetto e arrivano in finale nella Coppa dei campioni contro il Barcellona. Dopo la Samp la Lazio (altro scudetto) e poi continua da enfant prodige, perché parte senza gavetta da allenatore.

Il trampolino di lancio viola

Prima vice di Eriksson, un altro che stravede per lui, e poi subito alla Fiorentina anche se non aveva il patentino, scatenando un mucchio di polemiche. Mancini nelle polemiche sembra navigarci sopra. Tira diritto, torna alla Lazio e ottiene un ottimo quarto posto. Massimo Moratti, uno famoso per stancarsi subito dei suoi innamoramenti, a meno che non ti chiami Recoba, se ne innamora. Va all’Inter e non è che fa faville. Poi arriva calciopoli e cambia tutto. Prende Vieira e Ibrahimovic, muscoli e talento, e vince uno scudetto dietro l’altro. Ma Moratti s’è già stancato e lo caccia. Va al Manchester City, vince e poi lo fanno fuori. Passa al Galatasaray, fa giusto in tempo a eliminare la Juventus e se ne va. Torna all’Inter, una stagione e mezzo così così, poi non lega con i cinesi e molla. Adesso è allo Zenit.

Troppo "fumino" per essere un buon ct?

Nella sua parentesi italiana dopo Manchester ha avuto modo di arrabbiarsi come sa fare lui, visto che un po’ fumino lo dev’essere. Beh, con la Nazionale ci sarà da divertirsi. In Inghilterra aveva litigato con Moyes e Ferguson senza fare troppo clamore, ma in Italia è andata meglio. Dopo una partita di Coppa Italia con il Napoli dichiarò tutta la sua stima per Sarri: «Sarri è un razzista, uomini come lui non devono stare nel calcio. Ha usato parole razziste, ha inveito contro di me e poi mi ha urlato frocio e finocchio. Sono orgoglioso di esserlo se lui è un uomo. Da uno come lui che ha 60 anni non lo accetto, si deve vergognare. In Inghilterra non metterebbe più piede in campo». E in un derby con il Milan mostrò il dito medio ai tifosi al momento della sua espulsione. Quando Mikaela Calcagno, la conduttrice di Premium, gli chiese se aveva fatto quel gesto e perché, lui rispose infuriato: «Sì l’ho fatto. Ho mostrato il dito medio. Ora siete contenti? Basta con questa cazzata...».               

10 aprile 2018
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