"Non mi sono mai sentito un eroe, ma solo un uomo che combatte": è Mihajlovic lo sportivo dell'anno

«Non mi sono mai sentito un eroe, ma solo un uomo che combatte. Un uomo normale, con tutte le sue fragilità». Eppure se c’è un uomo che in quest’anno pieno di piogge acide e di paure velenose ha segnato il cuore degli altri, e di tutti noi, quest’uomo è quel signore burbero, eroe per caso, con lo sguardo diritto e un accento un po’ così, come quello che aveva Boskov quando diceva «la partita finisce quando arbitra fischia», e che invece in un giorno strano di luglio che non si capiva bene cosa stesse succedendo, ci ha detto: «Ho la leucemia. E’ una malattia bastarda. Ma non ho paura. La rispetto, ma non ho paura. La affronterò come ho sempre fatto nella mia vita. La guarderò negli occhi e combatterò».
L'anno speciale
Quel 13 luglio, quel pomeriggio a Castedebole, cominciò l’anno speciale di Sinisa Mihajlovic, in cui uno degli uomini più divisivi del nostro sport è diventato quello capace di unire tutti, nel nome della storia più antica del mondo: la luce contro il buio, la vita contro la morte. Prima di quel giorno, a gennaio Sinisa era arrivato in questo stesso posto, dietro questo stesso tavolo, a prendere per mano una squadra ormai già quasi condannata alla retrocessione. Aveva dettio: «Per salvarsi al Bologna serve un mezzo miracolo. Ma a me le sfide impossibili piacciono». Lui fece qualcosa di più. Dette un’anima a un gruppo che l’aveva perduta nelle paure di Inzaghi, gli trasformò il gioco, e non si accontentò di salvarlo, perché lo portò al decimo posto, alle soglie dell’Europa, battendo pure il Napoli alla fine del campionato, portato in trionfo dai suoi giocatori, acclamato dalla curva e supplicato dalla società perché non andasse più via.
Andare oltre se stessi
Poi le carte sono girate e non erano più le stesse. Da quel 13 luglio il 2019 è cambiato tutto. La grande lezione dello sport è che ci insegna a superare i nostri limiti: questo è il suo valore, e questo sono riusciti a fare tutti coloro che hanno vinto qualcosa. Andare oltre se stessi. Sinisa ha dovuto farlo non per vincere un premio, o per trionfare sugli altri, ma per trattenere la vita, per rimanere con noi, assieme a noi. Ha giocato la sua partita con le flebo al braccio, chiuso per quattro mesi e mezzo in una stanzetta asettica dell’Istituto di Ematologia del Sant’Orsola di Bologna, con l’aria filtrata, sognando solo di respirarla, l’aria normale, quella di fuori, quella di tutti i giorni, anche inquinata, con il velo di nebbia che nasconde il santuario di San Luca sulla collina. Qualche volta ha convinto i medici a farlo uscire, e al primo turno di campionato si è presentato al Bentegodi per la partita del suo Bologna contro il Verona, con la mascherina sul volto, perché a lui quell’aria, la nostra aria, era vietata, dopo 42 giorni di ospedale, «che pesavo 72 chili ed ero un morto che cammina. Non mi reggevo in piedi e in panchina sembravo un fantasma. Ma avevo fatto una promessa ai ragazzi e ho voluto mantenerla». E all’improvviso è successo qualcosa, appena lui è spuntato dal tunnel degli spogliatoi, perchè è esploso un applauso, lungo, commovente, e c’era anche gente che piangeva e non erano tifosi del Bologna, non erano solo loro. E poi è successo di nuovo a Torino, contro l’odiata Juventus, con i tifosi che l’hanno sempre insultato, che lo chiamavano zingaro, e questa volta lo applaudivano e cantavano in coro, e stendevano gli striscioni con il suo nome. Dappertutto era come se gli dicessero resta con noi, Mihajolvic, sei uno di noi. Per un minuto, per quei minuti, per tutto quel tempo, Sinisa ha trasformato incredibilmente il mondo del calcio, con i suoi fronti contrapposti e le sue bande in guerra: l’ha reso una famiglia. E così lui quando è uscito dall’ospedale ha ringraziato tutti e l’ha detto: «Mi sono sentito in famiglia».
Il trapianto
Il 29 ottobre gli hanno fatto il trapianto del midollo osseo, l’appuntamento più importante nella sua rincorsa alla vita. Nei giorni senza data dell’ospedale ha continuato ad allenare la squadra a distanza, «anche quando avevo 40 di febbre», steso nel suo letto con le flebo e le maschere, e i volti di Arianna, sua moglie, e delle figlie Viktorija e Virginia che gli facevano compagnia quando apriva gli occhi. «Non sai quanto è bello in certi momenti il sorriso di Arianna. E’ l’unica persona che conosco che ha le palle più di me». Ha pianto Sinisa, ha pianto tanto, persino troppo, al punto che quando finalmente è uscito dall’ospedale ed è tornato a Casteldebole, davanti a tutti i giornalisti, come in quel 13 luglio, ha detto che ormai non aveva più lacrime, «sono stufo, non ne posso più di piangere». Ma continua a farlo, quando parla della sua famiglia, di tutto quello che ha avuto, di suo padre che è morto di cancro quando lui era lontano, che è il suo più grande rimpianto: «Era 5 o 6 mesi che non lo vedevo, a quel tempo allenavo il Catania. Telefonai a mia madre: come sta papà? Sta bene, è in ospedale, ma sta bene, mi disse. Il giorno dopo mi chiamò mio fratello: papà è morto. Non ho potuto abbracciarlo l’ultima volta e non riesco a perdonarmelo. Adesso quando bevo una grappa, ne prendo una per me e una per lui».
La battaglia continua
Ora la sua battaglia continua. Purtroppo è sbagliato pensare che sia già finita. La sua è una malattia bastarda, come ha detto lui. Se dovessimo scegliere lo sportivo dell’anno, è facile per tutti fare il suo nome. Ma Sinisa è qualcosa di più, è quella parte di noi che si ribella all’ingiustizia, alla malattia, alla morte che ti cerca quando il tuo tempo deve ancora passare, e nessuno di noi se lo merita. Sinisa deve vincere la sua battaglia per questo. Perchè ormai non combatte solo per se stesso. Ma per tutti quelli che stanno passando dove passa lui, per tutti quelli che perdono sempre, e che piangono come piange lui, guardando la vita metà dentro e metà da fuori. Per tutti quelli che vogliono ancora restare con noi.