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Ricordo di Vialli ragazzo diventato "uomo nell'arena", fino ai tempi supplementari della vita

Era diverso dallo stereotipo dell'atleta tutto muscoli e niente cervello. Un discolo e burlone che amava letture e scacchi, cresciuto fra 5 figli

Gianluca Vialli, scomparso a 58 anni nel 2023 (Foto Ansa)
Gianluca Vialli, scomparso a 58 anni nel 2023 (Foto Ansa)
di Pierangelo Sapegno

Per ricordarci Vialli come calciatore forse basterebbe pensare a una delle sue rovesciate. Ma alla fine non è questa l’immagine che ci resta di lui, perché quell’abbraccio di Wembley con l’amico di una vita dopo la finale vinta agli Europei, quelle lacrime di gioia sulle spalle di Mancini, definiscono più di qualsiasi altra cosa quello che è stato davvero Gianluca Vialli, prima del bomber ruggente che ricordiamo, o del ragazzo discolo e fortunato che raccontava i suoi anni felici di Genova.

Il tumore che ha colpito Vialli, altri big e molta gente comune: nuovi studi e terapie. Leggi

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E’ stato un Uomo nell’arena, come quello del discorso di Roosevelt che lui aveva letto ai giocatori prima di quella finale, un uomo che ha perso e che ha vinto, come perde e vince solo chi non ha paura di combattere la sua battaglia: «Non è colui che critica a contare... L’onore spetta all’uomo nell’arena. L’uomo che lotta con coraggio, che sbaglia sapendo che non c’è impresa degna di questo nome che sia priva di errori e di mancanze. L’uomo che dedica tutto se stesso al raggiungimento di un obiettivo, che sa entusiasmarsi e impegnarsi fino in fondo e che si spende per una giusta causa. L’uomo che quando le cose vanno bene conosce finalmente il trionfo delle grandi conquiste e che, quando le cose vanno male, cade sapendo di aver osato. Quest’uomo non avrà mai un posto accanto a quelle anime mediocri che non conoscono né la vittoria né la sconfitta».

Via dalla comfort zone, verso il sogno

Gianluca, in fondo, aveva scelto questa vita, aveva voluto diventarlo, un uomo nell’arena, da quando, ultimo di 5 figli di papà Gianfranco e mamma Maria Teresa, aveva deciso di cercarsi la sua carriera di calciatore lontano dalla comfort zone di quella bella e numerosa famiglia che viveva in un castello del XV secolo a Grumello Cremonese. A 9 anni giocava nelle giovanili del Pizzighettone e a 14 si trasferì per mezzo milione di lire nella squadra della sua città. A 20 anni contribuì alla promozione in serie A dei grigiorossi, e lì cominciò la sua fortuna. Perché Gianluca ha sempre detto di essere stato un ragazzo fortunato, ricordando i suoi anni nelle strade di Genova, affacciati a Boccadasse o a far festa alla Beccaccia, inseguendo un sogno come bambini, fra scherzi e goliardate: «A volte penso di aver vissuto qualcosa di unico, strordinario. Credo proprio di essere stato fortunato». Era una grande famiglia, quella della Samp di Mantovani, proprio come la sua, di papà Gianfranco e mamma Maria Teresa, e in tutt’e due lui era il pischello, il più giovane assieme a Mancini, a cui si perdonava tutto, le sue zingarate infinite e le sue mattane.

Fratelli gemelli in camera e sul campo

I fratelli gemelli, l’artista e il goleador, Roberto Mancini e Gianluca Vialli, dormivano nella stessa stanza durante i lunghi ritiri e il Mancio ha raccontato che il suo compagno russava come un trattore, e allora lui si svegliava e andava a farsi dei panini col prosciutto in cucina, ma non poteva dirglielo o lamentarsi perché si offendeva. Vivevano a Nervi, il ct era un ragazzino che girava per le straducole col berretto della Samp in testa e Vialli un ragazzo felice che ne combinava di tutti i colori, una corsa sulle moto d’acqua e una fuga al casinò di Montecarlo. «E’ stato un gruppo indimenticabile», raccontavano tutti, «una squadra di amici che ha consumato ossa, sudore, sangue e fatica per rendere possibile l’impossibile».

Dentro la scatola dei ricordi della Samp

C’era Cerezo che arrivava all’allenamento con i suoi due cagnoni e poi si metteva a dormire appena finita la partita e non lo svegliava più nessuno, e c’era la mamma di Pagliuca che arrivava con i tortellini freschi da Bologna e chiamava Mikhailicenko che abitava al piano di sopra, e che era il più timido di tutti, a mangiarli assieme a loro. E poi c’era Boskov, papà Boskov, che chissà come fece a trasformare quei ragazzini in tanti uomini pronti per l’arena, continuando a bombardarli con quei suoi aforismi che non hanno mai smesso di farci ridere: «Perché noi siamo Sampdoria...», ripeteva. Oppure: «Perché loro sono loro e noi siamo noi». In realtà non è quel che diceva a conquistarli, ma la sua persona, quel broncio da attore comico che finge di essere slavo, perché è cpsì che si è fatto amare. Una volta che li vide spaventati prima di una partita, si girò sulla porta prima di uscire e con quel suo accento strano li rassicurò tutti: «Tranquilli, questi non sanno neanche dov’è il Nord e dov’è il Sud». Scoppiarono tutti a ridere e la paura era passata.

Le sfide personali tappa dopo tappa

Ma Vialli non è stato solo il ragazzo felice di Genova. Ha inseguito la Coppia dalla grande orecchie perduta con l’Ajax dalla strada più difficile, con la Juventus, senza passare dagli Invincibili del Milan che eppure l’avevano cercato. E’ andato in Inghilterra al Chelsea, prima da giocatore e poi da allenatore, vincendo una Coppa delle Coppe. Di tutto quello che ha vissuto non ha mai buttato via niente, non ha sprecato un minuto, ed è questa la sua grandezza. E’ stato un calciatore molto diverso dallo stereotipo classico dell’atleta solo muscoli e nessun pensiero, più calci che parole. Ha preso il suo bel diploma studiando da privatista, era di buone letture e sapeva capire le cose. Amava gli scacchi che aveva imparato a giocare dallo zio nelle giornate di pioggia che lui era ancora uno ragazzino.

Il cancro e i tempi supplementari della vita

Quando è arrivata la malattia si è ritirato quasi da tutto, prima che Mancini lo chiamasse a sè nella nazionale, immortalando il suo destino in quell’abbraccio di lacrime e di ricordi dopo la finale di Wembley. Una volta Vialli disse che «la vita è fatta per il 10 per cento di quel che ci succede e per il 90 per cento per come la affrontiamo». Ma era già il Vialli nell’arena trasformato dalla sua ultima battaglia contro il tumore, quando l’eroe sfrontato che cercava nella vita la lietezza regalata dal successo era stato capace di porgere di sé agli altri un’immagine persino cristica, in cui la malattia diventava un luogo di dolore e di trasfigurazione del male in bene. Su quell’altare di sofferenza è arrivato a dire che «non è vero che il cancro è questo grande nemico da sconfiggere, è una sfida per cambiare se stessi», per insegnare agli altri quello che la normalità dolente della vita gli offriva nel suo tramonto. E’ morto così, come un eroe qualunque dei nostri giorni, né meglio né peggio di come moriamo noi, come un padre, un amico, uno che piangiamo per quel che è, non per quel che è stato. E’ stato capace di trasformarsi da idolo a uno qualunque di noi, a scendere dal piedistallo del pallone per salire su un altro che lo ha reso più grande, quello dell’uomo nell’arena. In fondo l’Avvocato ci aveva azzeccato. Gli chiesero come definisce Vialli, se Baggio è Raffaello e Del Piero Pinturicchio? «Mi faccia pensare... Direi il Michelangelo della Cappella Sistina. Lo scultore che sa trasformarsi in pittore

6 gennaio 2023
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