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Finita la sceneggiata della Superlega, il calcio resta sull'orlo del fallimento. Agnelli alla Ferrari?

La verità è che se tutto resta come adesso quello del pallone è uno sport destinato a saltare per aria, con tutti gli annessi e connessi, visto che è una delle industrie più importanti del Paese oltre che di un collettore sociale

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
Il presidente della Juventus, Andrea Agnelli (Foto Ansa)
Il presidente della Juventus, Andrea Agnelli (Foto Ansa)

Ce l’ha già insegnato il cinismo melanconico di Dino Risi e Monicelli che la disperazione può farci scappar da ridere a noi che la guardiamo da fuori. Perché stando seduti in platea, la Superlega è venuta giù come dentro a una commedia all’italiana, tra una intervista e l’altra e la caduta amara dei suoi protagonisti. Nell’era del populismo è bastato che Boris Johnson, uno che non s’è mai occupato di calcio in vita sua ma che ha sempre cavalcato l’onda e seguito il vento, annunciasse una bomba legislativa fatta di tasse severissime sui profitti dei Big Six, i grandi club ribattezzati dai giornali inglesi, tagli di qualsiasi facilitazione e l’adozione del modello tedesco, in cui i tifosi possiedono una quota delle società e hanno voce nelle loro scelte, perché dal Manchester City in giù chiedessero subito scusa, a capo chino e sguardi mosci, abbiamo scherzato, non lo facciamo più.

Senza di loro, addio Superlega. Tutto come prima, quindi? Beh, non proprio. Qualche segno è rimasto, e chi ci ha messo troppo la faccia, come Andrea Agnelli, alla fine pagherà dazio. E ora, dopo gli spari e i botti di questa guerra da Pulcinella, e la ritirata della sporca dozzina, come da definizione isterica del presidente Uefa Ceferin, che voleva spaccar tutto ed è rimasta zoppa, qualche cosa si comincia a capire e ci sarà anche chi riesce a ragionarci sopra. La prima evidenza che salta agli occhi è che la Superlega non è solo fallita. E’ morta, sepolta.

Così come è stato presentato, quel progetto non esiste più. Ma il problema rimane. Il calcio sull’orlo del fallimento non è solo una bandiera sventolata per prendersi il malloppo. Ed è vero che la sporca dozzina metteva insieme una montagna di debiti che l’Everest non è niente. Ma se falliscono loro, come potranno sopravvivere i piccoli club eletti a modello virtuoso, come l’Atalanta, che ha venduto negli anni a Milan, Inter e Juve 12 giocatori per 200 milioni e al Manchester United uno di 18 anni a 40? E forse adesso, passata la sbornia da alleanza obbligata che ha costretto i tifosi a far comunella con la Uefa e la Fifa, qualcuno, speriamo, smetterà di santificare questi due organismi, collettori di soldi e tradizioni desuete, non del tutto estranei alla crisi del calcio.

Ascoltare la Fifa, che ha appena affittato i Mondiali nel Qatar, dispensare ammonimenti in veste di moralizzatore è come se ci fosse capitato di sentire Berlusconi inneggiare al comunismo: c’è qualcosa che non torna. L’Uefa, poi, è in qualche modo direttamente responsabile di questa ribellione finita in pochade. Perché è una organizzazione politica che ha interessi diametralmente opposti alle dodici Big, e nella sua funzione distribuire ai piccoli costituisce la base del suo consenso. La nuova Champions a 36 squadre è l’emblema di tutto questo, la fotografia perfetta di un dialogo impossibile. Ma se la Superlega è stato un progetto sbagliato, soprattutto perché aveva privilegiato la tradizione al merito, andando contro alle leggi dello sport, resta il fatto che se vuoi salvare il calcio non puoi lasciare fallire chi ti porta i soldi e i numeri: questo può far piacere solo a un tifoso cieco, e ottuso. I nemici dei padroni che vogliono il loro fallimento glielo, danno loro poi il lavoro a quelli che restano a casa?

La verità è che se tutto resta come adesso quello del pallone è uno sport destinato a saltare per aria, con tutti gli annessi e connessi, visto che parliamo di una delle industrie più importanti del Paese oltre che di un collettore sociale di appartenenza. Ci metterà 10 anni, venti, ma prima o poi succede. C‘è una combinazione tra spese esagerate e offerta sempre più deludente che è esplosiva. Per salvarlo, bisognerebbe intervenire sulle regole, cambiarne il volto (espulsioni a tempo al posto dei cartellini gialli, impedire gli zero a zero non dando punti in classifica, abolizione del fuorigioco, due tempi di 25 minuti effettivi), operazioni che i vertici del calcio non hanno nessuna intenzione di fare. L’Uefa poi dovrebbe allargare le sue borse, altra decisione che avrà molta difficoltà a prendere.

Stando così le cose, riguardiamoci la sceneggiata e facciamoci due risate. Che poi, come dice Leo Turrini, tutto il mal non vien per nuocere, perché se le cose vanno come devono andare Andrea Agnelli potrebbe venire alla Ferrari. E che un interista tifi per vedere il presidente degli odiati nemici sulla tolda di comando della Rossa la dice lunga sulle assurdità del calcio. Criticare uno che ha vinto 9 scudetti in 11 anni più tutto il resto è senza logica, è come gli juventini che parlano male di Conte quando allena l’Inter dimenticando che questo filotto è cominciato da lui, che li aveva presi nella mediocrità della classifica, aggrappati al settimo posto, che manco in Uefa andavano.      

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
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