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La guerra degli ingaggi dei calciatori: o c'è un taglio o crolla l'intero sistema calcio

Il presidente Figc, Gravina: "E' un momento di emergenza". Il rischio di un crac devastante per la serie A è uno scenario abbastanza concreto

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
La guerra degli ingaggi dei calciatori: o c'è un taglio o crolla l'intero sistema calcio

Una domanda sorge spontanea: ma se i club di serie A falliscono - una eventualità mica tanto campata in aria - chi pagherà ancora gli stipendi dei calciatori? E se finisse come in Svizzera, dove li licenziano? Eppure, di fronte alle aperture di Gabriele Gravina, presidente della Figc, e Renato Ulivieri, presidente degli allenatori, l’Aic, Associazione italiana calciatori, si guarda bene per ora dal certificare la propria disponibilità a ridursi gli ingaggi. Anzi, nella prima dichiarazione dal sen sortita si diceva in modo deciso e netto che «non si può partire dagli stipendi dei calciatori» (Umberto Calcagno dixit) e che «bisogna operare nel sistema», che non si capisce bene che cosa voglia dire se non: ci pensi il governo o lo Stato, come se adesso non avessero altre patate bollenti di cui occuparsi, che riguardano purtroppo tutti noi che non abbiamo la fortuna di guadagnare ogni mese certe cifre.

Tommasi: "Preservare l'equilibrio economico"

Poi è intervenuto Damiano Tommasi, il numero uno del sindacato dei giocatori, che è stato un po' più diplomatico, ma altrettanto freddo: «Tutti abbiamo l’interesse che l’equilibrio economico venga preservato e proprio per questo dobbiamo valutare tutti gli elementi del momento. Mancati introiti, rinvio delle competizioni, cancellazione di eventi, contributi governativi, aiuti federali, sostegno delle istituzioni internazionali. Tutti questi elementi ci diranno quale sarà il ruolo dei calciatori». Tradotto: adesso non se ne parla proprio. Prima vediamo cosa dà lo Stato («contributi governativi») e quali altri aiuti vengono messi in campo, e poi potremo parlarne. Intanto, quello che filtra dalle segrete stanze è che ai club sarà chiesto di sbrigarsi a pagare entro il 30 maggio gli stipendi di gennaio, febbraio e marzo, visto che le tasse sono state rinviate un mese più tardi e quindi devono accollarsi solo il netto. Come se fossero ancora tutte rose e fiori.

La fuga delle stelle del nostro campionato

Gira e rigira, la domanda resta senza risposta. Certo, in caso di fallimenti o profonde crisi di alcuni club, le stelle del nostro campionato non avrebbero problemi ad accasarsi altrove, in sistemi meno fragili, dove sarebbero ben lieti magari di offrire loro tutti gli emolumenti che chiedono. Pagherebbero dazio tutti quelli che non hanno questa fortuna - che sono la stragrande maggioranza dei calciatori italiani - e i tifosi. Ma i tifosi adesso sono soltanto spettatori, senza neanche gli stadi e le tv.

Il Sion ha licenziato 9 calciatori

Fuori dalle nostre frontiere c’è già comunque chi ha cominciato a prendere dei provvedimenti in questa direzione. In Ligue 1 alcune società hanno messo i propri giocatori in disoccupazione parziale. E in Svizzera il Sion ne ha licenziati 9 che si erano opposti al taglio degli stipendi, fra cui l’ex Roma Doumbia e l’ex Palermo Kasami.

Il rischio di un crac devastante per la serie A

Il fatto è che il rischio di un crac devastante per la serie A è uno scenario abbastanza concreto. Deloitte, la prima grande azienda di revisione e analisi del mondo, ha calcolato in 167 milioni la perdita per le società di calcio se il campionato dovesse riprendere regolarmente il 3 maggio, e in 720 se invece non si arriverà alla fine. Ma oggi sappiamo benissimo che se il 14 aprile gli allenamenti non dovessero riprendere - e tutto fa pensare che non accadrà - illudersi di tornare a giocare il 3 maggio sarebbe una autentica follia, anche nel malaugurato caso di disputare le partite a porte chiuse. La realtà è che nella ipotesi più ottimista si dovrà concludere la stagione oltre il 30 giugno, rivoluzionando tutti i calendari, ma anche tutti i contratti dei prestatori d’opera. Per salvare il calcio serve un patto tra società e calciatori, magari prolungando i contratti, in modo da pagare la stessa cifra per 15 o 18 mesi.

Gravina: "Il taglio degli ingaggi dei giocatori non è un tabù"

Il presidente della Figc, Gabriele Gravina, ha capito benissimo che questo è il vero nocciolo della questione: «In questo momento di emergenza», ha detto, «il taglio degli ingaggi dei giocatori non è un tabù. Credo che ci dobbiamo mettere tutti attorno a un tavolo. La crisi e l’emergenza valgono per tutti e anche il nostro mondo deve avere la capacità di essere unito. Siamo chiamati a un gesto di grande responsabilità, a dimostrare che la solidarietà non è solo una parola. Il mondo del calcio vive una grande crisi economica e la Federazione si impegna a raccogliere tutti i dati che le singole Leghe stanno elaborando per poi sottoporle a un esecutivo che con un decreto legge ha riconosciuto lo stato di crisi dello sport. Prima di rivogerci all’esterno, però, abbiamo bisogno di rinegoziare al nostro interno alcuni contratti, e di creare un sistema di mutualità. E’ necessario dare un segnale e dimostrare capacità di autosostentamento e solidarietà».

Guai a toccare la casta dei calciatori

E’ la voce della logica e della ragione. L’avvocato Marcello De Luca Tamajo, esperto di diritto sportivo e diritto del lavoro, in passato consulente per Figc e Coni, ha spiegato al Corriere dello Sport che la società non è tenuta a retribuire un calciatore che non offre la sua prestazione: «Si tratta di una situazione del tutto inedita, è tutto molto fluido, difficile e complesso. Potrebbe pure succedere che un atleta non prenda lo stipendio in relazione al solo periodo nel quale non effettua alcuna prestazione. Poniamo il caso che il coronavirus vada avanti per un anno. Il calciatore sta a casa e il datore di lavoro lo paga per tutto questo periodo? Non è possibile. In questa situazione è legittimo che il lavoratore non vada al lavoro, ma sarebbe pure legittimo che il datore di lavoro applichi una riduzione della retribuzione».
Sono in molti a pensarla così. Solo che questo è il Paese delle caste e dei privilegi, e ci mancava l’ultima casta, quella dei calciatori. Guai a toccarli. In un Paese stremato dai lutti, con il sistema sanitario che rischia il tracollo, in questa povera Italia rivoltata completamente da una epidemia che ha messo in crisi le sue regioni più ricche e produttive, c’è pure chi pensa che niente sia cambiato e niente cambierà.

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
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