L'Italia pareggia con la Bosnia, ma le mancavano i suoi registi e un centravanti
Roberto Mancini in conferenza stampa ha preferito nascondere questo evidente limite, sottolineando la sua soddisfazione per aver ritrovato un gruppo che non aveva dimenticato le sue linee guida

Come diceva quel gran genio di Manlio Scopigno «il calcio è lo sport più bello del mondo, se non ci fossero le partite». Anche l’Italia era quasi perfetta, così giovane e forte, non ci fosse stato questo obbligo da rispettare. La Bosnia non ha solo frenato l’esordio in Nations League - un rito che si ripete con lo stesso risultato, era stato uguale pareggio contro la Polonia nella prima edizione - ma ha fermato lo score persino surreale di undici vittorie consecutive, rallentando improvvisamente la crescita esponenziale di uno sfacciato gruppo di pischelli con qualche balia a controllo messo insieme da Mancini non senza coraggio e lungimiranza: dal travolgente 9-1 sull’Armenia al mezzo autogol provocato da Sensi ieri sera a Firenze, c’è però un abisso solo in apparenza. L’Italia di ieri mancava di due pedine fondamentali nel suo scacchiere, che hanno finito per evidenziare l’unico vuoto congenito di questa Nazionale, la sua assoluta incongruenza: la mancanza di un centravanti capace di giocarci assieme. Non c’erano Jorginho e Verratti, due playmaker di esperienza internazionale, che marcano con tratti decisi l’immagine moderna ed europea di una squadra votata alla costruzione del gioco, sostituiti da Sensi e Pellegrini, che hanno solo la carta d’identità più fresca ma non sono assolutamente in grado, per concezione ed abitudini, di ricoprirne il ruolo. Gli azzurri possono forse fare a meno di uno dei suoi registi, ma non di tutt’e due insieme.
Privata della sua cabina di regia, all’Italia è venuta meno anche una parte della sua idea di gioco, consegnando il suo possesso del pallone a sterili e stucchevoli passaggi laterali. Roberto Mancini in conferenza stampa ha preferito nascondere questo evidente limite, sottolineando la sua soddisfazione per aver ritrovato un gruppo che non aveva dimenticato le sue linee guida. Non poteva fare altrimenti, perché, come recita il manuale del bravo allenatore, il compito numero uno è quello di difendere sempre in pubblico i propri giocatori e di non creare regine e reginette, e neppure vassalli e valvassori. Non ha mai detto Mancini, manco una volta, che non esiste in tutto il nostro campionato un centravanti italiano moderno che possa adattarsi al suo gioco. Non si è mai lamentato - a che servirebbe? - e convoca disperatamente quelli che ci sono. Le scuole calcio dei nostri vivai continuano ciecamente a costruire degli attaccanti buoni solo e soltanto per lo stesso tipo di gioco, catenaccio e contropiede, senza rendersi conto che come dice già l’Europa, ma soprattutto come imporranno le logiche di sopravvivenza di uno sport che fra un decennio continuando così potrebbe rischiare di morire per noia, questi metodi e questi schemi verranno spazzati via dalla storia, se non da nuovi regolamenti. Qualche commentatore invoca la presenza da titolare della scarpa d’oro Immobile in questa Nazionale, senza voler riconoscere che il centravanti della Lazio è proprio il meno adatto di tutti, perché è bravissimo solo per il contropiede di Inzaghi: in tutti i campionati stranieri in cui ha giocato, Germania e Spagna, l’hanno subito tolto di squadra, vendendolo di corsa con un gran sospiro di sollievo, anche rimettendoci, appena si presentava qualcuno alla porta. Fatevi una domanda e datevi una risposta.
Non è che Belotti sia tanto diverso. E’ solo più potente. Certo, a guardare la Bosnia, uno capisce perché Inter e Juventus fanno la fila per strappare un trentacinquenne sulla soglia della pensione alla Roma. Dzeko partecipa naturalmente alla costruzione del gioco, rientra a dare una mano alla squadra, svaria per il campo, fa il regista per quasi tutta la partita e all’unica occasione che si presenta la mette dentro. Belotti e Immobile, a voler essere generosi, potremmo dire che non li abbiamo visti. Purtroppo invece li abbiamo visti. Due pellegrini cristiani in viaggio per Lourdes capitati per caso dentro a un rave, completamente avulsi dal gioco e totalmente inutili. Anche per questo non finiremo mai di ringraziare Roberto Mancini. Ha costruito una splendida nazionale costretto a giocare quasi sempre in dieci. Il solito plotone dei risultatisti e degli insegnanti che devono sempre dar lezioni a tutti, son già lì che gli fanno le pulci, che gli rimproverano di non aver schierato dall’inizio Zaniolo - ma quando è entrato, cos’è cambiato? - o che gli spiegano che Sensi è una mezzala trasformata da Conte in incursore, o cose così, da bolliti del Bar dello Sport, come se Mancini non conoscesse meglio di loro i suoi giocatori. Evidentemente qualcuno dimentica in fretta da dove veniamo, dai disastri rovinosi del duo Tavecchio e Ventura, i fratelli De Rege che ci portavano alla disfida di Barletta. Mancini non ha solo il merito inequivocavile di aver risollevato le sorti di una Nazionale mai caduta così in basso. Per noi ha quello, altrettanto importante, di averlo fatto guardando al futuro. Oddio, se voleva finalmente cambiare gioco nella patria del catenaccio era obbligato. Solo lavorando con i giovani, poteva sperare di riuscirci. Lui ce l’ha fatta. Se adesso pagheremo dazio per il Covid, com’è successo a Firenze, 291 giorni dopo il 18 novembre scorso, 9-1 all’Armenia, sarà meglio ricordarselo.