La Grande Bellezza del Napoli campione e i suoi registi: Giuntoli e Spalletti
Il ds azzurro è al vertice di un sistema piramidale, che comprende il vice Giuseppe Pompilio e soprattutto il responsabile dell’area scouting Maurizio Micheli e il capo degli osservatori, l’avvocato romano Leonardo Mantovani
Ci sono voluti trentatre anni, e forse è vero che non vale mai la pena per un tempo così lungo. Ma la Grande Bellezza non capita mai dall’oggi al domani, ci vuole tempo, e tutto il tempo che ci vuole per fare la storia. L’ultimo scudetto del Napoli era stato quello della stagione 1989/90 e portava il nome del giocatore più forte del mondo, Diego Armando Maradona, anche se in quella squadra c’erano altri ragazzi mica male, come Ferrara, Careca, Alemao, e dietro la scrivania uno che di calcio ne capiva come pochi, Luciano Moggi. Solo che la grandezza del Pibe de Oro, com’era giusto in fondo, faceva ombra a tutto.
Questa volta non è così, questa volta la Magia ha un segno diverso, persino più alto, perché non appartiene a uno solo e non è il regalo che ti fa lui, ma appartiene a tutti, è la corona che ti sei conquistato con l’arma migliore che potevi avere: quella del Gioco. E per giocare bene, bisogna farlo tutti. Dopo un avvio in sordina, con due pareggi nelle prime giornate, il Napoli fissa le distanze su tutti con un girone d’andata travolgente, annichilendo tutti non solo con i risultati, ma anche con lo spettacolo che riesce ad offrire sempre, su ogni campo.
Poi, siccome le vittorie hanno bisogno di tante cose, pure del destino, trae grande vantaggio da due situazioni favorevoli. La prima è quella del campionato del mondo, piazzato a interrompere la stagione nel cuore dell’inverno, e con i suoi giocatori che escono quasi subito da quella rutilante sfida che consuma muscoli e cervelli. La seconda è che le sue principali rivali, l’Inter e il Milan, rinunciano forse in anticipo all’agone per puntare tutto sulla champions, imbastendo una preparazione finalizzata a centrare le forma migliore in primavera, quando la competizione europea entra nel vivo. Il Napoli così traccia un solco profondo, che lo mette al riparo da qualsiasi rimonta. Avrebbe vinto lo stesso? Probabilmente sì. Solo che l’obiettivo ora è diventato più facile e più vicino.
In questa cavalcata però c’è lo splendore di una grandezza, di un sogno che non è rubato, ma conquistato. Nell’anima di una città sospesa fra i suoi misteri, miseria e nobiltà, genio e sregolatezza, la forza della sua poesia e la violenza del suo dolore, Spalletti ha costruito il suo capolavoro, creando una squadra che ormai merita un posto nella storia del calcio come quello che abbiamo dato al Milan di Sacchi, con le sue trame di gioco e i suoi uomini elevati a simbolo, come la mascherina paracolpi di Osimhen che i napoletani hanno messo dappertutto, poggiandola sulla statua del Cristo Velato, sulle foto del Vesuvio, sulla pizza Margherita e persino sulle zeppole. Ma al di là di tutto, Napoli ha vinto questo scudetto coniugando la sua fantasia con una invidiabile programmazione industriale grazie ad Aurelio De Lurentiis, senza niente tralasciare, nemmemo la politica.
Non è uno scudetto vinto all’improvviso. Ha cominciato a vincerlo d’estate, con una campagna acquisti sontuosa eppure passata sotto traccia, tanto che non c’era un opinionista che prima dell’inizio avesse infilato il Napoli tra le favorite. Da Kim a Kvara, fino a Raspadori, non ha sbagliato un colpo, dopo aver perso due pilastri come Insigne e Koulibaly. Per questo, per tutto questo, non è più il trionfo di un uomo solo al comando, non è più lo scudetto di Maradona, ma quello di una città intera e di una squadra intera.
Con due artefici sopra tutti, senza i quali forse niente avrebbe potuto accadere. Spalletti e Giuntoli, due toscanacci che hanno fatto la fortuna degli azzurri. Fra tutti i giochisti che affollano a parole il calcio italico, il signore di Certaldo è uno dei pochi che merita davvero questo titolo, affibbiato per spirito di corpo e di bandiera anche a Pioli o Conte, ad esempio, che non lo sono per niente. E’ una divisione stupida quella fra giochisti e risultatisti. Inzaghi è uno che costruisce il gioco attraverso il catenaccio, cioè un sistema che annulla il gioco per antonomasia, ma io avrei fatica a inserirlo nei difensivisti a oltranza.
Però il calcio italiano che sta rinascendo dalle sue ceneri (soprattutto se si deciderà a resettare la giustizia sportiva che pende come una spada di Damocle sul suo futuro) ha assoluto bisogno dello spettacolo per rilanciarsi all’estero e aumentare il valore del suo prodotto. Se no passata la sbornia ci troveremo di nuovo a parlarci solo fra di noi. Spalletti potrebbe segnare la via: ha sempre cercato lo spettacolo, non affidandosi a uno schema, ma adattando la sua filosofia agli uomini a disposizione, passando dal contropiede manovrato dell’Udinese al calcio arioso con le sue folate improvvise della Roma per arrivare a questo Napoli che si impadronisce delle partite con un fraseggio verticale. Il Napoli di Kvara è stato molto diverso da quello di Insigne, e non poteva essere altrimenti. Diversi gli interpreti, diverso il gioco.
E questa squadra capolavoro gliel’ha costruita Cristiano Giuntoli. Il ds azzurro è al vertice di un sistema piramidale, che comprende il vice Giuseppe Pompilio e soprattutto il responsabile dell’area scouting Maurizio Micheli e il capo degli osservatori, l’avvocato romano Leonardo Mantovani, una coppia di ferro che ha migrato da Brescia a Udine, facendosi le ossa e qualcosa di più, prima di arrivare a Napoli, andare via e poi ritornare, nel 2018, perché certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano. Micheli e Mantovani andavano a cercare talenti in Africa già nei primi Anni 90, quando a quelle latitudini c’erano solo i loro colleghi inglesi dell’Arsenal e del Manchester.
Frank Anguissa lo beccano così, con questo patrimonio di conoscenze alle spalle, stando lì ad aspettare il momento buono per abbassare il prezzo, mentre quello viaggia dal Marsiglia al Fulham per 30 milioni, al Villareal e di nuovo al Fulham, per venire a Napoli giusto alla metà: 15. Bisogna starci dietro, coltivare rapporti e legami, e avere una pazienza infinita, come Giuntoli ha fatto con Kvaratskhelia, preso a 11,5 milioni quando ne chiedevano più di trenta: «Lancio i galleggianti e attendo. Tutto il tempo necessario».
Ma sor Cristiano è un fiorentino atipico, architetto mancato, con 19 esami all’Università di Firenze, e una carriera da calciatore quasi tutta in Liguria, in serie C, uno tranquillo che, se può, sta lontano da qualsiasi polemica, cosa quasi impossibile nella terra dei Medici, e che non sa nemmeno lui quanto è bravo dopo che ha appeso le scarpe al chiodo: è il patron del Carpi che se ne accorge, Stefano Bonacini, perché l’aveva preso per fare il vice del ds e non ci mette neanche 12 mesi e mandar via il suo capo e puntare tutto su di lui come direttore sportivo.
In sei anni, il Carpi vola dalla serie D alla serie A, e l’ultimo salto dai cadetti lo fa con un budget di due milioni lordi, che gli bastano per scovare gente come Kevin Lasagna. E’ così che viene a Napoli. Ma non è che lui cambia. Resta sempre lo stesso. Il profilo basso è la sua chiave per aprire tutte le porte. Lobotka, Anguissa, Kim, Di Lorenzo, Kvara, Meret, Zielinski, Osimhen, sono tutti colpi suoi, perché questo è il Napoli di Giuntoli. E di Spalletti. Non c’è San Gennaro stavolta. C’è un progetto, una programmazione industriale, c’è modernità. Lavoro e sudore. E’ questo il Napoli Campione.