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Ecco perché l'addio di Mourinho alla Roma è la cronaca di una sconfitta

Non ci sono solo la classifica del campionato, i derby persi, i sesti posti o il nono di adesso, ma anche la storia di un amore spezzato e la lontananza quasi incolmabile che separa il popolo della Roma dalla sua proprietà

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
Josè Mourinho (Ansa)
Josè Mourinho (Ansa)

I sogni svaniscono all’alba, ma qui non c’è un’alba e non ci sono più sogni. Mourinho s’è fermato a Trigoria a salutare tutti, prima di allontanarsi sul viale, sparire in fondo alla vista di quelli che continuavano a cantare il suo nome. «Ringrazio tutti i tifosi della Roma, vi porto sempre nel mio cuore. Il mio tempo qui è terminato». Su Instagram ha lasciato le dieci parole che hanno segnato la sua avventura in giallorosso, sangue e lacrime, sudore, allegria, amoR, fratelli, storia, cuore, eternità. C’è anche tristezza, che è quella di adesso, una tristezza dolente, come l’ultimo addio sul viale di Trigoria, inseguito da questi cori che inneggiano a lui, gli stessi del 2 luglio 2021, quando si affacciava dalla terrazza e c’era la folla ai cancelli che cantava «Gioca Mourinho», ma saltava di gioia, era felice.

Cosa resta di questo tempo? La sensazione di una sconfitta, che riguarda tutto, non solo la classifica del campionato, i derby persi, i sesti posti o il nono di adesso, ma anche la storia di un amore spezzato e la lontananza quasi incolmabile che separa il popolo della Roma dalla sua proprietà. Questa distanza è resa ancora più evidente dall’incredibile connessione che Mourinho ha avuto con il cuore dei tifosi. Roma è stata pervasa da lui, come sottolinea Giancarlo Dotto, grande firma romanista, José ha riempito gli stadi, le teste, le piazze, i sogni e gli incubi. Solo che come Narciso è un egoico che vive, ama, odia e distrugge di luce riflessa. Quello che gli altri però faticano a capire, è che questo rapporto di identificazione ha contato più della vittoria, che se si deve perdere, se ci tocca, si può farlo solo con lui, perché ci rappresenta tutti, perché il romanista è così, come se si combattesse per un ideale di giustizia, non per un trofeo, e allora conta come lo fai.

Mou forse non ha mai avuto una squadra così fragile nella sua carriera, fragile come i muscoli di Dybala, o come l’inadeguatezza di alcuni suoi interpreti, l’incomprensibile Lukaku di queste ultime partite, la vaghezza amorfa di Spinazzola o Zalewski, e la melanconica cupezza di Pellegrini di fronte alla guerresca tenzone di Mancini in stile Materazzi, che nella sua Inter era una riserva. A loro, a questa inguaribile fralezza, ha preferito la gente, il popolo romanista, che si è stretto attorno a lui come non aveva mai fatto nella sua storia, forse nemmeno con Zeman, demagogo senza il fuoco di José, e neppure con Liedholm, che vinceva e gli rubavano il gol di Turone, ma non aizzava mai nessuno.

Sotto la musica di Bocelli e le immagini delle lacrime e delle gioie di questi due anni e mezzo postate su Instagram, in 42mila si sono precipitati in poche ore a commuoversi con lui. Gianmaria ha scritto che «neppure quando mi ha lasciato la mia ex ragazza ho sofferto tanto», e un altro ha citato addirittura Gesù Cristo: «Padre mio, Padre mio, non sanno quello che fanno». Questo amore incancellabile diventerà un rimpianto, che potrebbe anche essere pericoloso, un brandello di memoria che aleggia sul futuro della società. Dopo Zeman ci fu Capello, mai troppo amato per questo dai romanisti (che anche lui a sua volta ha mai troppo amato), che innalzò la squadra e portò uno scudetto, annacquando così le nostalgie. E comunque allora c’era Totti. La bandiera c’era già. Oggi non c’è nessun Totti, e l’unica bandiera è quella che è stata ammainata. Per ripetere quello che avvenne dopo Zeman, ci vorrebbe un allenatore vincente e un presidente che apra il portafoglio. Antonio Conte (che Friedkin chiama quasi tutti i giorni, per ora inutilmente) e una campagna acquisti di grandi nomi. Due cose fino adesso impossibili. E se tutto questo non avverrà, l’addio di Mourinho rischia di diventare la cronaca di un fallimento.

Il fatto è che l’altra faccia dell’idillio fra la piazza e il suo capopolo è quella dell’incompatibilità sempre più marcata e più evidente fra José e la proprietà americana della Roma. Per i Friedkin, quasi certamente non è stata solo una questione di risultati, ma di immagine. Dalla loro stanza di comando in Texas, questa incontenibile volontà di pugna, questa continua, ossessiva ricerca di una tenzone, dentro cui arroccarsi nel fortino, avrebbe potuto essere accettata solo se fosse stata foriera di vittorie e soldi, a cominciare dal posto in Champions League, e perciò incassi, più dollari dagli sponsor e più tutto. Senza questo risultato, la sfida agli arbitri e le battaglie sul campo quasi più contro di loro che contro gli avversari diventavano solo comportamenti colpevoli e dannosi. E’ qui che José ha smarrito il suo incantesimo, che tutto questo delirio di sold out e di passione sconfinata non si è trasformato in una cavalcata verso la gloria, ma è rimasto come un castello vuoto, corroso dal tempo e logorato dalle battaglie. José s’è trovato da solo con la sua truppa, quando la guerra era già perduta.

Alla fine ci hanno perso tutti, ci ha perso Mourinho, ci hanno perso gli inconsolabili tifosi e ci ha perso la proprietà, che probabilmente sarà costretta pure a versare una sostanziosa penale per questo addio anticipato. Sono tempi duri quelli che aspettano i Friedkin. Il rapporto con la città s’è incrinato e i sogni di vittoria sono lontani. Questa è la verità. Via Mourinho, resta solo la sconfitta.

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
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