A Monza vince l'Italia. Ma senza Ferrari: ecco perché quello di Maranello è diventato un incubo senza fine
Due ore di colpi di scena ininterrotti. Neanche una delle due monoposte Ferrari ha tagliato il traguardo
Monza ha regalato un Gran Premio sorprendente, due ore di colpi di scena ininterrotti. Persino la Ferrari ha migliorato se stessa. In negativo, ovviamente: neanche una delle due monoposte ha tagliato il traguardo, Vettel ritirato per i freni, Leclerc dopo un incidente. Ha vinto Pierre Gasly, milanese d’adozione, su Alpha Tauri, scuderia italianissima di Faenza, con un finale al batticuore, resistendo alla rimonta di Carlos Sainz, che ha sentito da vicino il profumo del successo. Dal prossimo anno dovrà dimenticarlo per un bel pezzo, visto che gli toccherà una Ferrari al posto di Sebastian Vettel. Podio incredibilmente senza Mercedes: Bottas male per tutta la gara, solo quinto, e Hamilton settimo, ripartendo dall’ultimo posto per una penalità. Ritirato anche Verstappen. Grande Italia per una volta. Senza Ferrari, però, che nel circo della Formula 1 fa notizia soltanto per le sue disonorevoli sconfitte senza fine.
La cosa che più spaventa di questo vergognoso declino di Maranello è il preoccupante immobilismo dei vertici. Restano agli atti le dichiarazioni di John Elkann in difesa di Binotto: «Mattia ha preso in mano la scuderia da prima, ha tutte le competenze e le caratteristiche per iniziare un nuovo ciclo vincente. Era in Ferrari con Todt e Schumi, sa come si vince». In realtà Binotto non sembra un gran vincente. E’ un ottimo ingegnere motoristico, uno dei migliori: fategli fare quello, non altro. Non basta la carriola che il suo team è riuscito a inventarsi per questo mondiale? Che altro dovremo vedere? Una macchina a pedali fra i bolidi della F1 per risparmiare sulla benzina? Quello che spaventa di più, invece, è che si voglia proprio continuare sulla strada che ha portato a questo disastro sportivo. Niente è capitato per caso. E la Ferrari non è arrivata al punto più basso della sua storia dall’oggi al domani.
La verità è che dall’addio di Domenicali e Montezemolo Maranello ha avviato un netto e chiaro percorso al ribasso. Come spiega bene Nestor Morosini, il decano dei giornalisti sportivi della F1, «l’ordine di Sergio Marchionne, rimasto anche dopo la sua scomparsa, fu quello di diminuire le spese, ovviamente per aumentare i guadagni, sperando al tempo stesso che appoggiando una direttiva del contenimento dei costi obbligatoria per tutti, le altre case automobilistiche ne sarebbero rimaste indebolite». Queste direttive va bene se tutti sono alla pari. Ma in quel preciso momento non lo erano, perché, ha ricordato Montezemolo, la Ferrari aveva accettato una sfida complessa come quella della power unit, commettendo un errore madornale: «Rispetto alla Germania, in Italia in quel momento non c’era ancora una cultura dell’ibrido». Cioè si partiva praticamente da zero. E questo è stato il primo errore strategico: Maranello non ha considerato che con l’avvento dell’ibrido, alcune case automobilistiche - ad esempio la Mercedes - erano nettamente più avanti, e se tu imponi a tutti di contenere le spese è ovvio che chi ti precede non solo è avvantaggiato, ma che chi insegue non avrà mai neppure i mezzi per ridurre il gap.
Poi è venuto tutto il resto. Con l’obbligo di ridurre i costi, la Ferrari cominciò così a comprare l’accessoristica all’offerta più bassa, nonostante la sua posizione subalterna nel campo della nuova tecnologia le consigliasse proprio il contrario. E, come sottolinea ancora Morosini, «licenziò con varie motivazioni i suoi elementi migliori (con gli stipendi maggiori) che passarono tutti al nemico con i risultati che sappiamo». Una lunga lista che comprende James Allison, ad esempio, e Nicholas Tomatis. In compenso, le persone chiamate dopo per sostituirle non avevano né esperienza né competenza in F1: Montezemolo ha ricordato come un altro grave errore sia stato quello di trasferire ingegneri dalla produzione di auto stradali alla Formula 1. «Purtroppo però i due ambiti richiedono competenze molto diverse. La Ferrari invece ha cercato di affidarsi soprattutto ai profili italiani, sbagliando». A questo si sono aggiunte le difficoltà imposte dalla concorrenza e anche da chi dovrebbe essere super partes e che ha finito invece per schierarsi apertamente con le nuove forze emergenti. Così, le montagne di regole stabilite dalla Federazione Internazionale hanno avuto in pratica l’unico scopo di limitare Maranello, che con il Patto della concordia, che prevede la distribuzione alle scuderie dei soldi ricavati dalle sponsorizzazioni e dai diritti tv, aveva ottenuto di ricevere un compenso fisso in più in riconoscimento del fatto che ha sempre partecipato al mondiale di F1. Quelle regole hanno sempre cercato di favorire le altre scuderie in modo che i compensi della classifica costruttori livellassero il vantaggio del bonus storico.
Negli anni, tutti questi errori hanno finito per sommarsi uno sopra l’altro. La cosa più assurda, poi, è che l’unico nome da salvare nell’elenco di Maranello sarebbe proprio quello di Mattia Binotto, piazzato però nel posto sbagliato come team principal, seguendo le indicazioni di Marchionne. Lui, che è uno dei più bravi ingegneri motoristici, il suo in fondo l’aveva fatto l’anno scorso, mettendo in linea un motore straordinario che permise alla Ferrari di vincere e di tornare dominante. Giusto il tempo che a quel punto intervenisse il delegato tecnico della Fia a buttargli tutto all’aria, guarda caso quel Nicholas Tomatis licenziato da quei geni di Maranello che nel segno del risparmio hanno raso al suolo una scuderia vincente. Il brutto è che difendendo Binotto nella sua attuale posizione si vuole difendere tutto l’impianto su cui è costruito questo disastro. Bisognerebbe andare alla Mercedes, prendere Toto Wolff e fargli rifare tutto. Bisognerebbe anche convincerlo, che è la parte più difficile, nonostante qualcuno stia tirando fuori la panzana che ci verrebbe di corsa. Ma siccome tutto questo non avverrà, prepariamoci ad altre domeniche così, a guardare gli altri che corrono per vincere dalla posizione che ci siamo meritati accumulando un errore dietro l’altro: quello dell’ultima ruota del carro.