Jacobs e Tamberi, gli ori dell'impossibile: quei venti minuti che hanno cambiato la storia
Marcel Jacobs entra nell’album delle Olimpiadi in un posto speciale, il primo a vincere dopo l’imbattibile Usain Bolt, il primo italiano ad arrivare in finale nei cento metri e il primo a prendere l’oro

«Sappiate che io da oggi non dormo più». Anche noi facciamo fatica stanotte, perché una giornata così è troppo forte, è roba che non si dimentica più, un segno indelebile, di quelli che fanno la vita più bella. Gimbo halfshave, mezzabarba Tamberi, lo dice ridendo, abbracciato al suo grande amico, compagno di sventura e di gioia, Muttaz Barshim: «two ‘s meggh che uàn». Oh sì, due è meglio che uno, soprattutto quando sono due vittorie incredibili come queste, storie di riscatto e tenacia, di splendore e fatica. Primo agosto 2021, ore 14,56, segnatevi questa data, la più grande giornata di sempre dello sport italiano. Marcel Jacobs vince la medaglia d’oro dei cento metri alle Olimpiadi, dopo una escalation incredibile esplosa quest’anno, quando l’unico che poteva crederci fino in fondo era solo lui. Dalle batterie in avanti ha piazzato un record dietro l’altro, e qualche speranza abbiamo cominciato a coltivarla pure noi per la finale, ma quella gara di rimonta con passo rotondo e potente, quello sguardo lanciato già oltre il traguardo di chi sa che nessuno è più forte di lui, non ce li saremmo mai aspettati. Marcel Jacobs entra nell’album delle Olimpiadi in un posto speciale, il primo a vincere dopo l’imbattibile Usain Bolt, il primo italiano ad arrivare in finale nei cento metri e il primo a prendere l’oro. Lui è già come Livio Berruti, come Abebe Bikila. Eterno.
Il primo che lo abbraccia sulla pista è Gimbo Tamberi, che ha appena vinto l’oro nel salto in alto dopo essersi portato dietro il gambaletto, Road To Tokio 2021, quello che lo costrinse a rinunciare a Rio cinque anni fa e che sembrava averlo cancellato dai sogni. Invece, Tamberi ce l’ha fatta, e la cosa più incredibile è che ce l’ha fatta assieme a Muttaz Barshim, che ha avuto la sua stessa sventura rompendosi nel 2018 e dovendo ripartire da capo, in coda a tutti gli altri, gradino dopo gradino. Gimbo il suo infortunio lo ebbe nel momento più alto della sua carriera, alla vigilia delle Olipmpiadi di Rio, mentre aveva appena centrato il record italiano a 2,39 a Montecarlo e cercava di migliorarlo, portandolo a 2,41: rottura del legamento deltoideo del piede sinistro. Adesso, nell’empzione di questa giornata straordinaria, ricorda che gli era crollato il mondo addosso in quei giorni, «passai una settimana sdraiato a letto a piangere». E il calvario era appena cominciato: dopo il gesso, i guai non erano finiti, e dovette affrontare due operazioni chirurgiche e un trapianto di tessuto. Non si è mai arreso, Gimbo. Si è sottoposto a interminabili e dolorosi trattamenti di fisioterapia. Quando riprese ad allenarsi, i risultati stentavano ad arrivare. Dice che un giorno si è chiuso in stanza con la sua compagna, Chiara, e l’ha guardata negli occhi: «Ci proviamo? Mi sono detto di sì: ci proviamo, per Tokyo». Lentamente ha risalito la china.
Alle soglie delle Olimpiadi è sembrato diverso. Era diventato uomo. Lo conoscono tutti nel mondo dell’atletica. E’ un ragazzo estroverso, simpatico, molto generoso. Lo chiamano halfshave, perché prima delle gare si tagliava la barba solo da una parte della faccia. Gliel’aveva detto suo padre, Marco, suo allenatore ed ex primatista italiano di salto in alto, probabilmente per scherzo: «Rasati solo una parte del volto». Un tipo come Gimbo, che suona pure la batteria nel gruppo The Dark Melody, rock Anni 70, non se l’è fatto ripetere due volte: «Magari mi porta bene». Arrivato a Tokio, deve aver pensato che la scaramanzia non funzionava più. Questa volta non si scherza. Ha chiesto la mano alla fidanzata Chiara prima di partire per il Giappone, e poi arrivato qui si è chiuso nel ritiro monastico di Tokorazawa. S’è messo a dieta, scendendo di peso, per essere più elastico. Non si è tinto nè tagliato i capelli e ha persino rinunciato al rito della mezzabarba. Poi però ce l’ha fatta: «Lo sognavo da bambino questo giorno, ma dopo quell’infortunio terribile pensavo che ormai fosse diventato impossibile. E non riesco quasi a crederci neppure adesso che sono qui a raccontarlo».
La vittoria dell’impossibile, ecco cosa è stata questa domenica. Marcel Jacobs è nato a El Paso, in Texas, 26 anni fa, ma vive a Desenzano del Garda con sua mamma Viviana da quando aveva 18 mesi, e nessuno fino a poco tempo fa immaginava che avevamo in Italia l’Uomo Più Veloce del Mondo. Faceva salto in lungo, come dice la scritta che si è tatuato nel petto, CrazyLongJumper, e anche piuttosto bene, visto che pure lui batteva i record. Ha avuto la stessa sfortuna di Gimbo, e questo rende la storia ancora più incredibile: doveva andare alle Olimpiadi di Rio nel lungo, ma dovette fermarsi per una lesione al quadricipite femorale sinistro. Dai sogni alla disperazione. Però gli era rimasta in testa una cosa. Perché da bambino lui giocava a calcio, ed era questa la sua passione: «Ma visto che non prendevo una palla e invece correvo veloce, un giorno l’allenatore mi disse che forse era meglio se provavo un altro sport, come l’atletica». Così decise di provare con la corsa. I risultati li faceva, ma ce n’era uno più forte che lo batteva sempre, Filippo Tortu.
Tamberi ha cominciato la sua risalita nel 2018: ha saltato di nuovo 2,33 e da lì con tenacia e sacrificio è migliorato, fino al 2,37 di Tokyo. Nel 2018 è cambiata la vota di Marcel Jacobs: si è trasferito a Roma, con il suo allenatore Paolo Camossi, e si è messo nelle mani della mental coach Nicoletta Romanazzi, che è stata decisiva nella sua trasformazione. Da quel momento Marcel - padre di 3 figli, Anthony e Megan, avuti dalla sua compagna Nicole, e Jeremy, nato da una precedente relazione quando aveva 19 anni - s’è concentrato solo sullo sport. Ma soprattutto ha riallacciato i rapporti con il papà Lamont, ex marine dell’Us Army alla base di Vicenza, che aveva abbandonato la famiglia per andare in missione nella Corea del Sud. Forse, Marcel è riuscito a mettersi in pace con se stesso, condizione necessaria per esprimersi al meglio nel proprio lavoro.
Il lavoro di Gimbo e Jacobs è quello di vincere. Ci sono arrivati tutt’e due attraverso il dolore e la fatica. Lui, Marcel, racconta che era il suo sogno da bambino, ma da bambino lo sogniamo tutti, e poi già arrivare in finale gli era sembrato tanto, dice che si sentiva a posto con se stesso, che era tranquillo. «Ero sicuro di me stesso, però sereno». Solo che prima che cominciasse la gara ha visto Gimbo che vinceva l’oro, mammamia ce l’aveva fatta, e lui sapeva quel che aveva passato, lui sapeva tutto il calvario che aveva salito, perché c’era finito anche lui in quel burrone: «non so come, ma questa cosa mi ha gasato un casino».
Due è meglio che uno. Saranno le curve del destino. La giornata più grande dello sport italiano riassume tutto quel che siamo, perché la nostra storia passa sempre dal dolore e dalla fatica. Noi vinciamo l’impossibile. Siamo fatti così, siamo come Mennea, che era sbilenco e gracilino, che faceva tenerezza a guardarlo in mezzo agli altri Rambo, ma aveva il cuore più grande di tutti. Marcel lo sa che in fondo è pure più bello vincere cosi: «Tutte le batoste che ho preso, le sofferenze che ho patito, e adesso sono qui che ce l’ha fatta. Sono intontito, è ancora strano quello che provo. Forse stanotte guardando il soffitto capirò quello che è successo». E poi magari farà come Gimbo: «Sappiate che io da oggi non dormo più». Così non ci sveglieremo mai.