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Da Mancini a Gimbo e Jacobs, la Grande Bellezza dell'estate italiana ci insegna a non mollare mai

Questa magica estate dello sport italiano ce la ricorderemo per un pezzo. Perché le vittorie non sono tutte uguali, perché sono diverse come i tempi che le racchiudono e iconiche come i loro protagonisti e i giorni che le raccontano

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   

Questa magica estate dello sport italiano ce la ricorderemo per un pezzo. Perché le vittorie non sono tutte uguali, perché sono diverse come i tempi che le racchiudono e iconiche come i loro protagonisti e i giorni che le raccontano. In questa incredibile stagione della nostra vita, simbolicamente illustrata da quell’abbraccio avvolto nel tricolore fra il primo italiano che ha vinto l’oro nei cento metri e il primo che l’ha vinto nel salto in alto, dopo tutti questi mesi in cui l’incubo del Covid ci aveva vietato qualsiasi contatto e imposto il distanziamento, isolandoci fuori dal mondo, c’è la naturale prosecuzione con un’altra gioia collettiva e un altro abbraccio, anch’egli manifesto emblematico di quest’estate magica, quello fra Mancini e Vialli, sul prato di Wembley sotto il cielo grigio di Londra.

Nel desiderio di libertà che abbiamo inseguito per tutto questo tempo, abbiamo ritrovato il sapore del successo ottenuto contro tutto e tutti, la vittoria impossibile afferrata nel segno di un’identità comune del nostro patrimonio, perché nessuno è abituato come a noi a risalire la china, risorgendo dalle ceneri per rimontare i dolori di una sconfitta. L’Italia di Mancini, Marcell Jacobs e Gimbo Tamberi hanno avuto tutti questo in comune, che sono ripartiti da zero e che ci hanno creduto solo loro, perchè nessuno avrebbe mai potuto immaginare quello che hanno visto loro.

Mentre gli azzurri del calcio venivano dallo sprofondo dell’esclusione dai mondiali del 2018, Jacobs e Tamberi avevano dovuto rinunciare due anni prima al sogno olimpico di Rio per dei gravi infortuni. Quello di Gimbo era addirittura più angosciante, perché molti atleti non sono riusciti a riprendersi con quei guai alla caviglia. Tamberi ha dovuto affrontare un lungo calvario, segnato da due operazioni chirurgiche e un trapianto di tessuto.

C’è una data che accomuna tutti i tre protagonisti di quest’estate incredibile, perché il destino nella sua imprevedibilità qualche messaggio però lo lascia sempre. Tutti e tre sono ripartiti dal 2018: Ventura e Tavecchio sono finalmente costretti ad andarsene e Gravina chiama Mancini alla guida della nazionale, Tamberi comincia a risalire dal burrone in cui era precipitato saltando 2,33, e Jacobs dopo aver deciso di abbandonare il lungo per i cento metri si trasferisce a Roma con il suo allenatore, iniziando da lì una scalata di tempi, esplosa poi solo realmente quest’anno.

Quando tutto questo comincia, la nostra Nazionale era ormai abbandonata di tifosi, e Gianmarco e Marcell erano vissuti come due grandi promesse dell’atletica rimaste inesorabilmente impigliate nelle spire della sfortuna. Sono ripartiti da soli. Mancini per riconquistare credibilità e pubblico, ha scelto di puntare tutto sullo spettacolo, abbandonando i dettami storici della scuola italiana, tutti dietro e lanci lunghi a pedalare, poco divertimento e massimo risultato con il minimo sforzo. Con lui potevamo perdere, ma giocavamo sempre per vincere, a testa alta. E abbiamo solo vinto.

Gimbo ha conservato come una reliquia il gambaletto che lo aveva cacciato via dai sogni e con la fidanzata Chiara ha deciso che ci avrebbe riprovato. Su quel gesso le ha fatto scrivere: «Road To Tokio 2021». E l’ha protato con sé, sulla pedana, nel giorno in cui l’incredibile è diventato realtà. Marcell, figlio dell’ex marine Lamont, che aveva abbandonato la famiglia per andare in missione con l’US Army quando lui aveva un anno, nel 2018 ha incontrato la mental coach Nicoletta Romanazzi, che in televisione ha pianto dieci minuti di fila per il trionfo del ragazzo sul padre assente e sul suo spettro, mentre la mamma levigava la sua commozione: «Era un desiderio che avevo nel cuore per mio figlio. E’ riuscito a raggiungere il suo sogno. Se lo merita dopo tanti sacrifici e una vita tortuosa, con tante difficoltà».

Queste vittorie ci hanno colpito, oltre che per la loro grandezza, anche perché potevamo identificarci, dopo tutti quei mesi rinchiusi fra le nostre quattro mura con i nostri lutti, dopo questa battaglia senza fine contro un nemico invisibile che ci ha condannato alla lontananza e all’assenza. Ci sono vittorie che sono diverse dalle altre. Il mundial del 1982 è stato come un grido di liberazione, una vittoria dell’impossibile, proprio come quelle di quest’estate, il raggiungimento di un sogno dopo aver salito tutti i gradini della scala, uno per uno. Se nel 1982 uscivamo dagli incubi dei giorni di piombo, ritrovando in quel successo la gioia di vivere senza paura, oggi sappiamo che la battaglia contro il Covid non è ancora finita, che ci aspettano altre barriere dietro alle nostre curve. Eppure, questa estate meravigliosa dello sport italiano, è un grido di speranza, una lezione a non mollare.

L’urlo liberatorio di Tardelli e i gol di Paolorossi, tutto attaccato, come chiamavano gli italiani in quei giorni lontani, la pipa di Pertini e il suo grido di gioia sugli spalti sono diventati il manifesto iconico di un’epoca, perché caricavano quel trionfo anche di altri significati. Il 2006 ha la stessa grandezza ma non la stessa valenza. Forse facciamo pure fatica a ricordare chi era il nostro presidente nei giorni di Berlino. Oggi, come in quel 1982, non lo dimenticheremo più, non dimenticheremo Mattarella, l’abbraccio di Mancini e Vialli, e quei dieci minuti che allo stadio di Tokio hanno sconvolto le vecchie classifiche e molto altro, le lacrime di Gimbo e Marcell stretti nel tricolore. Perché quelli che hanno vinto hanno fatto le stesse cose che facciamo noi, ogni giorno, nella banalità della nostra vita. Non hanno mai smesso di crederci, hanno sempre tenuto duro. E questo ci hanno detto, di non mollare. Perché è così che si vince.  

 

Pierangelo Sapegnodi Pierangelo Sapegno   
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