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Sara, Kimia, Imane, Yaroslava e Iryna, Nole e Lorenzo: Olimpiadi e lezioni di vita

Abbiamo sprecato una settimana a scrivere e commentare fake news e propaganda. E ci siamo scordati di raccontare le vere storie di questi giochi olimpici. Atleti che sono i nostri eroi contemporanei. Ne abbiamo qui scelte qualcuna

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
Sara, Kimia, Imane, Yaroslava e Iryna, Nole e Lorenzo: Olimpiadi e lezioni di vita

Le lacrime di Djokovic che piange come un bambino e dire che ha vinto 24 slam, è il Goat di sempre ma per quella medaglia d’oro era venuto a Parigi in missione e non poteva fallire perchè non ci sarebbe stata una seconda occasione.  La maschera di ferro sul viso di Sara Errani, 37 anni anche lei come Nole, quando sul 7-5 per le azzurre nel super tie break che avrebbe assegnato l’oro olimpico, tocca a lei servire e senza neppure guardare le avversarie pizzica la palla dal basso, la butta di là e fa punto, 8-5 (finirà 10-7 per le azzurre). Il fermo immagine sul volto bello, scolpito di Kimia Yousuf arrivata a Parigi dall’Afghanistan neppure lei sa come, che finiti i suoi cento metri si stacca il pettorale (n.5), lo gira - è un foglio A4 - e mostra al mondo il motivo per cui è lì: “Education, our rights”, l’istruzione, i nostri diritti. I Talebani stanno cancellando e azzerando tutto. 

L’ombretto giallo e azzurro, i colori della loro bandiera, sugli occhi truccati di Yaroslava Mahuchikh e Iryna Gerashchenko, le due atlete ucraine che hanno appena vinto l'oro e il bronzo nel salto in alto femminile. I pugni sul petto, proprio lì dove si attacca il tricolore, di Lorenzo Musetti, 22 anni, l’Itatennis che si riprende il podio olimpico (bronzo nel singolare maschile e l’oro nel doppio femminile)  cento anni esatti dopo de Morpurgo (1924).  “Sarà una bella storia da raccontare a mio figlio quando sarà più grande” dice il tennista di Carrara. La squadra di beach volley egiziana: a 36 gradi, nel magnifico stadio di beach sotto la Torre Eiffel, le due ragazze sono costrette a giocare vestite dalla testa ai piedi e di nero, per di più. Ed è l’Egitto. 

Quante storie potremmo raccontare, ogni giorno, per undici giorni perchè le Olimpiadi, da sempre, sono un palcoscenico che racconta vite per lo più sconosciute di mondi lontani che diversamente non potremmo  conoscere. Oltre ogni ostacolo, oltre te stesso, oltre i limiti. Della scienza, della genetica, della fisica, del destino, di un muscolo che fa i capricci, della paura di vincere o di perdere, che poi sono la stessa cosa. Oltre i pronostici. Oltre le regole di stati canaglia che vorrebbero impedire anche lo sport. Alle donne, e infatti ci riescono. Il cuore, in questo caso più importante della volontà. Un mistero che non trova parole. E su questo, infatti,  troviamo e troveremo poche tracce nelle prime pagine dei giornali, negli editoriali di direttori attenti ai cromosomi ma che nulla o poco sanno di tutto il resto che c’è nella vita di un atleta. Ma è in questo mistero il fascino di un gesto sportivo, di una vittoria che vale spesso una vita intera.

Il paradigma 

Se lo sport è metafora della vita, le Olimpiadi ne sono il paradigma, la sintesi suprema, spesso irripetibile, quindi unica. Le cerimonie di apertura, i disguidi, le polemiche - ce ne sono sempre ogni quattro anni - sono i dettagli e gli accessori di un rito che non stanca mai da centoventotto  anni. Del resto, se metti insieme in 19 giorni di gare. 11.475 atleti provenienti da 205 Paesi - alcuni dei quali in guerra permanente come Israele e Iran - per confrontarsi in 45 diverse discipline, ci sta che qualcosa non vada. Se aggiungi che tutto questo avviene in uno dei momento di maggiore tensione internazionale dalla fine della seconda guerra mondiale, dovremmo solo ringraziare ogni mattina la Francia e Parigi che i giochi olimpici ha voluto e organizzati. Roma, ad esempio, ha fatto prima: non li ha voluti organizzare.

Spettacolo immondo

Negli ultimi otto giorni abbiamo assistito allo spettacolo immondo e riprovevole di opinionisti e politici che hanno messo in fila e contato gli ormoni e i cromosomi della povera Imane Khelif, la pugile algerina, mostrificandola, bullizzandola. Ne hanno fatto un boccone,  lo hanno masticato un po’ e ora poi lo hanno già sputato. Non serve più, anzi, può essere un boomerang.

 Sappiamo com’è iniziata questa storia: alle 18.06 del 30 luglio quando Matteo Salvini ha scritto sui social che “un trans algerino, bandito dai mondiali di boxe, parteciperà alle Olimpiadi e affronterà la nostra Alessandra Carini”. Sappiamo com’è finita: il magnate russo che presiedeva l’Iba (International boxing Association, cacciato con sospetti di corruzione e quello che un anno fa aveva bandito Umane dalla fole mondiale) ha offerto centomila dollari a Carini e alla sua federazione (cioè la Fai italiana), il premio riservato a chi vince l’oro olimpico. Nel frattempo Carini ha perso, anzi, non ha neppure combattuto, 47 secondi, un solo pugno lacrime e rabbia.

Entrambe questa ragazze sono state usate dai registi di una campagna internazionale di destra - con gli stessi toni sono intervenuti Elon Musk e Donald Trump - nata unicamente per screditare i giochi. Il mandante è Putin; l’obiettivo finale è indebolire giorno dopo giorno Emmanuel Macron, l’Europa e l’Occidente che vuole includere ed essere laico e liberale. E quindi fake news come piovesse: Khelif non è trans, non è un uomo, è solo intersex, cioè ha più ormoni maschili rispetto alla norma  ma questo, come ha certificato il Cio sulla base di parametri medici, non favorisce più del dovuto la sua prestazione atletica.

Certo: Khelif è alta, potente - certamente più di Carini - e veloce. E’ più dotata di altre atlete che fanno pugilato e trovarsela davanti non deve essere facile. Ma è stato facile gareggiare contro il nuotatore Usa Michael Phelps che aveva il 47 di piedi e una angolazione di 13 gradi superiore agli altri, “l’uomo con le pinne ai piedi”? No, e ha vinto tutto lui. Così come non è stato facile per Jasmine Paolini, che è alta un metro e 63, competere contro tenniste come la Sabalenka alta un metro e 86. Eppure lo ha fatto e l’ha anche battuta. E che dire degli atleti somali o etiopi? Il loro sangue geneticamente trasporta meglio l’ossigeno, possono correre per ore e non sentono la fatica.  Ne possiamo mettere in fila mille di queste “differenze”: è la genetica bellezza, poi dipende come la usi e diventa la meraviglia dello sport.

La corsa di Yousofi

Così, purtroppo, oggi non troveremo sui giornali e sui siti lo spazio e la meticolosità di racconto dedicata alla fake news di Khelif per parlare di una storia vera come quella di Yousufi. La squadra afgana è presente a Parigi: sei componenti, il governo talebano ne voleva solo tre, tre uomini. Il Cio è riuscito ad imporre anche tre donne, tre esuli. Tra queste c’è la velocista Kimia Yousofi, esule in Australia, convocata direttamente dal Cio per aggirare il regime talebano a cui non riconosce legittimità. Yousofi non sta nella squadra dei rifugiati - all’esordio in questa Olimpiade, 36 componenti, tanto Iran e paesi arabi, voluta dal presidente Bach - proprio per dare rappresentanza all’Afghanistan nonostante il governo talebano.

Yousofi ha corso ma non è arrivata a Parigi per questo: è arrivata ultima, 13,42, tempo non competitivo, ovvio ma le sue Olimpiadi erano altro. Erano scritte con un pennarello sul retro del pettorale mostrato all’arrivo alle telecamere di tutto il mondo: “Educazione, i nostri diritti”. L’Afghanistan non esiste praticamente più, dopo vent’anni di occupazione militare occidentale era tornato ad essere un paese dove le donne avevano pari diritti. Una generazione di ragazze è cresciuta così. Dalle sera alla mattina sono state progressivamente chiuse in casa e non se ne sa più nulla. Non ci sono state campagne social su Yousofi.

Sconfiggere i fantasmi

Così come non le vedremo, non le abbiamo viste, per raccontare la favola bella perchè dura, faticosa, piena di solitudini, cadute e risalite di Sara Errani. E’ arrivata ad essere numero 5 del mondo con la forza della volontà e grazie ad un’intelligenza tattica sviluppata, forse, proprio per compensare un fisico normale e un tennis senza particolari vincenti. Arrivò in finale alla slam parigino nel 2012 poi si trovò davanti la watussa russa Maria Sharapova e non ci fu nulla da fare. Stessa storia nella finale agli Internazionali di Roma (2014), unica italiana ad arrivare in finale dai tempi di Panatta e Pietrangeli. Anche lì, dovette incrociare  il campo con Serena Williams sulla cui prestanza fisica e muscolare - oggettivamente superiore a tutte - nessuno ha mai osato sollevare dubbi.  In coppia con Roberta Vinci in quegli anni, Sara e Roberta vincono tutti i titoli dello slam. Le chiamavano “le chickies”, un lessico famigliare rimasto segreto. Un trionfo fino al 2016. Il 2017 è il suo annus  horribilis: a febbraio 2017, a seguito di un controllo antidoping, viene trovata positiva al letrozolo, sostanza contenuta in un farmaco assunto per anni dalla madre per combattere la recidiva del tumore al seno.

In agosto l’Itf  la sospende con la pena minima di due mesi (fino al 2 ottobre 2017) riconoscendo che “l’ingestione è stata accidentale, a causa di una contaminazione alimentare”. Ma il nemico, a quel punto, Sara lo trova in casa. L'autorità nazionale antidoping del Coni il 31 agosto 2017 propone l'appello al TAS contro la sentenza. L’11 giugno 2018 anche il TAS riconosce che “l'ingestione è stata accidentale, a causa di una contaminazione alimentare” ma accoglie parzialmente il ricorso presentato da Nado Italia aumentando la squalifica di altri otto mesi, senza concedere la retrodatazione prevista dal regolamento ITF. Per farla breve, Sara Errani non ha potuto giocare fino al 9 febbraio 2019, le sono stati cancellati i risultati ottenuti, ha dovuto pagare 4000 mila franchi svizzeri per spese legali a Nado Italia. Nel 2019 il gip di Ravenna ha archiviato definitivamente il procedimento per doping, per mancanza di dolo.

La promessa e il riscatto

In quegli anni e in quelli a seguire Sara Errani non ha mai smesso di lottare per tornare ad essere quello che è stata, per riconquistare sul campo l’onore e il prestigio.  Era sprofondata intorno alla posizione numero 300 della classifica. A trent’anni è ripartita da tornei sconosciuti, in luoghi sconosciuti, da sola - la Fit è sempre stata al suo fianco dandole quando possibile le wild card di accesso ai tabelloni -e ha risalito match dopo match, gradino dopo gradino, la classifica. Neppure il Covid la ferma. Nel 2022 il ritorno prende forma. Nel 2023 torna nelle prime cento. Un anno fa, proprio a Parigi, l’idea di giocare il doppio con Jasmine.  “Ho imparato a gestire i fantasmi che ognuno di noi si porta dentro” ha detto quest’anno a Parigi dove è riuscita ha passare due turni dello slam. Come si fa Sara? “Ho capito che devi convivere con i fantasmi, che fanno parte di noi” spiegò. Il servizio è certamente uno di questi fantasmi. Ha servito dal basso, Sara, 7-5 del supetiebreak per l’oro olimpico. I suoi fantasmi sono saliti ieri sul podio mentre stringeva tra le lacrime la medaglia che ha sempre sognato e cantava con Jasmine a squarciagola l’inno nazionale. Missione compiuta, Sara.   

Citius, altius, fortius, communiter” è il motto olimpico.  Quello che dimentichiamo sempre è “communiter”, insieme. Insieme Sara e Jasmine. Insieme a Khelif, a Yuosof, insieme a Lorenzo, a Nole. E a tutti gli altri campioni che ogni giorno raccontano le Olimpiadi. Sono le storie dello sport. Lezioni di vita. 

Claudia Fusanidi Claudia Fusani   
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