"Cerco di fare del mio meglio perché fra vent'anni non sia più un'anomalia un direttore nero in un torneo". Non avrebbe potuto essere più chiaro James Blake, che dirige dal 2018 il Miami Open, quando è diventato l'unica persona nera a capo di un torneo ATP o WTA. Lo scenario al vertice non è cambiato di molto, anche se a livello di pratica sportiva negli USA la presenza afro-americana è in crescita.
Nei suoi 14 anni di carriera da giocatore, Blake ha vinto dieci titoli ATP, ha raggiunto un best ranking di numero 4 del mondo ed è stato anche eletto come vice-presidente del Player Council nel board dell'ATP.
Ha conosciuto il dolore per la morte del padre e un incidente a Roma che ha rischiato di mettere fine alla carriera (in allenamento ha sbattuto la testa contro un paletto della rete). Ma ha saputo tornare più forte di prima e ha raccontato questo percorso nel libro autobiografico del 2007 “Breaking Back, How I Lost Everything and Won My Life Back” ("Breaking Back, come ho perso tutto e ho riavuto indietro la mia vita"): il titolo gioca con il significato di "break back" che vuol dire sia tornare indietro sia, in gergo tennistico, completare un contro-break.
Nel 2008 ha anche vinto l'Arthur Ashe Humanitarian of the Year Award, il premio che l'ATP assegna al giocatore che si impegna di più per ragioni umanitarie, per aver contribuito a fondare il Thomas Blake Sr. Memorial Research Fund allo Sloan Kettering Cancer Center, un fondo intitolato al padre per la ricerca sul cancro. Per tutta la carriera ha anche sostenuto concretamente l'Harlem Junior Tennis Program che l'ha aiutato a muovere i primi passi nel tennis.
Quel premio ha un valore speciale per Blake anche perché era stato proprio Ashe a far appassionare al tennis suo padre, che considera un modello. "Poi ho letto il suo libro di memorie, Days of Grace, e la sua figura mi ha impressionato ancora di più. Potresti modellare la tua vita di lui, su un campione e un uomo che ha fatto tutto quanto fosse in suo potere per rendere il mondo un posto migliore" ha raccontato.
"Mi sento molto fortunato nel venire dopo campioni che hanno aperto la strada come Ashe, Althea Gibson, Mal Washingtone le sorelle Williams - ha detto nel 2023 - Quando sento Frances Tiafoe dire che si ispira a me, che questo gli ha fatto in parte decidere di iniziare a giocare a tennis mi scalda il cuore".
Nella sua vita ha conosciuto anche il razzismo. Fin da bambino, a Yonkers (New York) e poi a Fairfield, una cittadina dalla popolazione in larghissima parte bianca in Connecticut, dove la famiglia si è trasferita quando il piccolo James aveva sei anni. Poi da giocatore, basti pensare allo spiacevole episodio del 2001 con Lleyton Hewitt che si lamentava perché un giudice di linea nero gli ha chiamato un fallo di piede: "Non vedi fra loro due una somiglianza?" diceva all'arbitro, indicando il giudice di linea e Blake. La somiglianza, chiaramente, stava nel colore della pelle.
Poi il 9 settembre del 2016 un agente di polizia in borghese l'ha ammanettato di fronte al Grand Hyatt New York perché l'aveva scambiato per il sospettato di una frode con carte di credito che si trovava nello stesso hotel.
E' anche grazie a lui se oggi lo scenario negli USA, a livello di pratica di base è molto diverso da quello che conosciuto all'inizio della sua carriera. Secondo quanto riportava nel 2024 The Athletic, la testata sportiva acquistata dal New York Times, "la partecipazione tra i giocatori neri è aumentata di oltre il 60 percento dal 2019 al 2023. La loro presenza nella popolazione statunitense è del 13 percento, mentre solo all’11 percento tra i quasi 24 milioni di tennisti degli Stati Uniti". Di strada da fare ce n'è ancora, e gli esempi come Blake sono ancora oggi più importanti che mai.